Dopo anni di oblio mons. Mario Delpini, primo arcivescovo al Campo della Gloria, ha ricordato la figura milanese di Carlo Bianchi fucilato a Fossoli dai nazifascisti e tutti i combattenti caduti per la Libertà
«Vorrei prendere spunto da un uomo come Carlo Bianchi, per dire che c’è un modo un po’ speciale dei cattolici di buona volontà, di reagire a quello che è sbagliato: seminare il bene per combattere il male».
Con queste parole mons. Mario Delpini ha tracciato il senso della celebrazione in memoria del 25 aprile, avvenuta nella mattina del 16 aprile ’19 al Campo della Gloria nel Cimitero Maggiore di Milano. L’incontro è aperto da Roberto Cenati, presidente Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia), che con preoccupazione denuncia che indifferenza e cattiva memoria rischiano di aprire vecchie e pericolose strade: nazionalismo, razzismo e fascismo. Per il sindaco Giuseppe Sala gli antidoti a questi pericoli sono la cultura e il lavoro, uniti da una politica capace di «risposte concrete alle paure, spesso legittime dei cittadini». Per Alfonso Arbib, capo rabbino di Milano, è preoccupante il ritorno dell’Antisemitismo in Italia come in tutta l’Europa. Roberto Iarach, presidente del Memoriale della Shoah, annuncia che «quest’anno avremo più di 40mila studenti in visita al Memoriale». Sono presenti anche delegazioni di studenti di alcune scuole: l’Istituto comprensivo Pareto, la Scuola ebraica di Milano, il liceo musicale Giuseppe Verdi, l’Istituto Galdus, il classico Berchet e la scuola media Puecher.
Fine dell’oblio
Un anno fa, per la memoria del 25 aprile, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella pose fine all’oblio di Carlo Bianchi accendendo, in diretta televisiva con milioni di italiani, i riflettori su una delle pagine più oscure e dimenticate della storia. Il 12 luglio 1944 al Poligono di Cibeno per rappresaglia vennero fucilati 67 internati politici e antifascisti. Nella diretta televisiva, il presidente della Repubblica citò i nomi di tre milanesi condannati: Jerzi Sos Kulczycki e Giuseppe Robolotti e Carlo Bianchi.
Di fronte a ciò che è sbagliato le reazioni possono essere diverse. C’è chi si lamenta, chi si adagia adattandosi, chi si rassegna. «Altri – riprende Mario Delpini – spaccano tutto! Siccome qualcosa è sbagliato allora distruggiamo tutto! Reagiscono al male con la violenza. […] Io vorrei prendere spunto da Carlo Bianchi, questo partigiano antifascista, cattolico che ha fatto la Resistenza fino a quando è stato tradito, poi imprigionato e fucilato». La personalità di Carlo Bianchi, padre e marito affettuoso, ingegnere intraprendente «ci dà l’esempio – continua Mario Delpini – di una serenità, di una fortezza che domina le passioni e intuisce la via da percorrere. Una serenità, una fortezza che derivano dalla preghiera, dalla fede in Dio che Puecher ha testimoniato nelle lettera che abbiamo scelto e da tanti testimoni che hanno affrontato la prova estrema proprio perché sapevano di contare sulla potenza e misericordia di Dio. Modo singolare con cui Carlo Bianchi ha affrontato e messo a posto le cose storte è stato per esempio quello di perdonare anche colui che l’aveva tradito e aveva, quindi, reso possibile arrestare un uomo che non aveva fatto niente di male, ma certamente aveva deciso di resistere al male»
Una fede quotidiana
Tra gli insegnamenti di Carlo Bianchi troviamo «quello di coltivare una cultura – precisa Mario Delpini – che abbia un’interpretazione della convivenza della gente come vocazione a una fraternità, condizione irrinunciabile alla libertà con la ricerca e la difesa della giustizia, con la pratica generosa della carità e la formazione di una coscienza sociale. Quindi un programma di vita che non era uno scritto, ma una prassi che Carlo Bianchi ha messo in atto anche prima, e a prescindere dall’oppressione fascista e dal momento drammatico della guerra e di quella civile, avviando quella che si è chiamata la carità dell’Arcivescovo, cioè un luogo di cura e di attenzione medico e giuridica a coloro che non potevano accedere alle cure mediche e all’assistenza giuridica. Un’istituzione che c’è ancora adesso». Nella lettera alla moglie Albertina, datata 18 gennaio 1944, Carlo Bianchi scrive: «Questa mattina ho fatto la comunione in occasione dell’apertura del Centro di assistenza per i poveri che abbiamo aperto alla Fuci: penso proprio questo che per ritrovare la parte migliore di noi è necessario dimenticarci, dare quanto più è possibile, agire per il bene, tuffarci nella carità. […] Appunto perché ho figli sento che occorre per loro salvare l’avvenire dell’Italia, della civiltà, della libertà, della dignità: per essi voglio dare il mio contributo alla ricostruzione del domani, riserbandomi la gioia di avervi uniti e stretti attorno a me nella nostra casa, quando la pace, quella vera, tornerà a sorriderci e a consolarci».
Il cammino nella fede quotidiana ha «motivato quest’uomo – precisa Mario Delpini – , questo cattolico, questo padre, sposo a mettere a rischio la sua vita costruendo gruppi di amici, studiando la dottrina sociale della Chiesa, guardando al desiderabile futuro di questo Paese che era drammaticamente diviso e dominato dalla violenza». Mons. Mario Delpini conclude l’omaggio a Carlo Bianchi, come a tutti i caduti per la Libertà, raccomandando «questo modo di resistere alla violenza, di resistere all’indifferenza, di resistere alla rassegnazione, di contrastare il lamento, di contenere la violenza perché quando una cosa è storta piuttosto che distruggere tutto, piuttosto che lamentarsi e rassegnarsi è meglio mettere mano all’impresa di raddrizzarla. […] Anche noi cerchiamo di mettere mano all’impresa di aggiustare quello che c’è di sbagliato nel mondo, così vogliamo onorare e ricordare coloro che ci hanno dato questa Italia»
17 Aprile 2019 Silvio Mengotto
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