Il 2 febbraio ricorrono i cento anni dalla scomparsa del card. Andrea Carlo Ferrari, alla guida della diocesi ambrosiana tra la fine dell’Ottocento e i primi vent’anni del Novecento, che fu molto vicino ai giovani e ai poveri. Ferrari ebbe una particolare cura per le organizzazioni giovanili e fu molto vicino all’Azione cattolica. L’arcivescovo Mario Delpini lo ricorda con una messa in Duomo il 31 gennaio. L’Azione cattolica ne fa memoria con questo articolo di mons. Ennio Apeciti, che ringraziamo.
«Figlio d’Italia, amò con tutta l’anima la patria: pastore e padre, prodigò tutto se stesso senza tregua per il bene dei suoi figli». Così lo commemorò alla sua morte l’onorevole Angelo Mauri nell’Aula della Camera dei Deputati, che per la prima volta rese un tale omaggio ad un vescovo dal 1870, dopo l’unificazione d’Italia.
Quest’omaggio del Parlamento italiano mi è sempre parso un segno di non poco conto: esprimeva un giudizio sull’intero episcopato di un uomo, il cardinale Andrea Carlo Ferrari (1850-1921, arcivescovo di Milano dal 1894 alla morte), che aveva incontrato mille fatiche nel suo lungo episcopato ambrosiano.
Nelle mie lezioni parlo di “perplessa accoglienza” a Milano: alla morte del mite Luigi Nazari di Calabiana, i notabili di Milano fecero sapere a Leone XIII che desideravano un “nobile” come nuovo arcivescovo, possibilmente anche “buon patriota”.
Anche per questo il Papa lo creò cardinale (18 maggio 1894) tre giorni prima di annunciarne il trasferimento da Como a Milano e scrisse ai milanesi – con fine ironia – che aveva accolto i loro desideri e per questo mandava loro un “principe”, perché tale era allora il rango dei cardinali, non importa se – come nel caso di Ferrari – egli era per nascita il figlio di un ciabattino, un contadino di un piccolo borgo sperduto nelle campagne di Parma.
Non finiremmo di indicare le contrarietà che Ferrari incontrò nel suo servizio episcopale. Mi basta ricordare le Feste Sant’Ambrosiane per celebrare i 1.500 anni dalla morte di sant’Ambrogio: all’ultimo momento il governo negò l’autorizzazione al trasporto dell’urna dalla Basilica ove il Santo riposa in Duomo, ove si sarebbe svolto il triduo solenne (14-16 maggio). Fu concesso solo che il trasporto avvenisse nella notte, per non turbare i passanti di giorno con il trasporto di quello “scheletro”, come si gridò in Parlamento. Ma la notte del ritorno, appena l’urna fu caricata sul carro, un anonimo carro usato per tutti i defunti, Piazza del Duomo si illuminò tutta: una processione aux flambeaux di migliaia di giovani accompagnò il Santo con inni e canti, senza che la polizia osasse disperderli, impressionata anch’essa da tanto giovanile coraggio.
Valga solo questo come esempio di ciò che il cardinale Ferrari seppe suscitare nel cuore dei credenti di allora e che potrebbe ancora suscitare nel cuore dei giovani oggi. Egli credeva in un cristianesimo che non se ne stava nelle sacrestie e non si rinchiudeva nella devozione privata.
Per questa presenza incisiva nella società sostenne l’Opera dei Congressi e ne organizzò egli stesso alcuni di rilevanza nazionale, come il Congresso Eucaristico del 1895 (1-5 settembre) e il Congresso Catechistico Nazionale (5-7 settembre 1910), cui si lega la promulgazione di lì a poco del famoso Catechismo di Pio X.
Volle che i credenti non si nascondessero e per questo animò due famosi pellegrinaggi, a Lourdes (1899) e in Palestina (1902): il primo cardinale a tornare nei Luoghi Santi!
Aveva in animo una presenza capillare della comunità cristiana, e per questo fondò 61 nuove parrocchie, ma ancora di più, potremmo dire, una presenza “moderna”. Egli, infatti, comprese con chiarezza che stava iniziando un cambiamento di civiltà: «La Chiesa non si accontenta di aprire i battenti dei suoi templi, di far echeggiar nell’aria i gravi suoni dei sacri bronzi, ma corre al popolo là dove si trova, disperso nei campi, stipato nelle officine, parla un linguaggio sensibile che può essere inteso, lo aiuta nella sue giuste rivendicazioni, non gl’impone come condizione e passaporto pel cielo la servitù e miserabilità in terra».
Proprio per essere vicino al mondo operaio, il cardinale sostenne la fondazione dei Cappellani del Lavoro. Con altrettanto coraggio difese l’ideale cristiano della famiglia, già allora combattuta con le cicliche proposte di introdurre anche in Italia il divorzio: «L’amore indicato dalla religione, il vero, il santo, il cristiano amore sarà tutto; perciò nel nome della religione e della Chiesa il Vescovo leva la sua voce e grida: amiamo la famiglia!».
Lottò con tutte le sue forze per sostenere la catechesi negli oratori e l’insegnamento religioso nella scuola: «Venne il giorno in cui si disse: la religione rimanga in chiesa; la scuola sia laica, che vuol dire atea, perché senza religione. […] Possiamo noi tacere, o miei fratelli? Sarebbe troppo grave colpa; dignitosamente, sì, e col dovuto rispetto a tutti, ma con altrettanta franchezza in nome della religione è da alzare la voce!».
Chiedeva ai giovani il coraggio della presenza, dell’impegno, della coerenza. Essi dovevano essere, per il Cardinale, «convinti intimamente della fede che professano, e perciò sodamente istruiti» nelle verità della fede; fedeli al Papa; amanti della preghiera, ricchi di virtù per dare «splendido esempio di una vita irreprensibile, intemerata».
I giovani dovevano essere «uniti fra loro col vincolo della carità» e per questo volle fossero “organizzati” nell’Azione cattolica giovanile, nella Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana), nella Gioventù femminile, con l’aiuto di quel genio di santità che fu Armida Barelli.
In questa passione apostolica seppe “guardare oltre”; seppe pensare al futuro e ci lasciò l’Opera che porta il suo nome: un’associazione di ecclesiastici e di laici, uomini e donne, per costituire le Case del Popolo, per «fondare ed esercitare dormitori, cucine e pensionati; aprire e mantenere scuole commerciali, professionali e di lavoro, locali di conferenze e di riunione, divertimenti educativi e morali […] cura degli ex carcerati e tutela dei migranti».
Sia lecito ricordare alcune sue frasi, che credo preziose ancora per noi: «Fare molte cose e farle tutte bene»; «Lamentarsi è inutile; bisogna fare, fare, fare!»; «Ad ogni iniziativa cattiva opporne un’altra buona»; «Occorre amare i fanciulli, i vecchi, gli ammalati, i poveri»; «Amatevi tra voi e siate uniti in Gesù Cristo, perché, se Cristo vi chiama amici, dovete tutti tra voi essere amici sinceri, perché sincero amico di tutti è Gesù!».
Ce ne lasciò la consegna nel suo Testamento: «Dio ci ha creati e Gesù ci ha redenti affinché noi tutti quaggiù formando una sola famiglia ci amiamo e ci sosteniamo a vicenda […] O figli di Dio, attenetevi alla giustizia, alla pietà, alla carità, alla pazienza, alla mansuetudine, e combattete le sante battaglie della fede, per raggiungere la vita eternamente beata, che è la vera vita, alla quale siamo chiamati».
Posso capire, a questo punto, le parole con le quali l’onorevole Mauri concluse la sua commemorazione in Parlamento: il cardinale Ferrari aveva insegnato che «bisogna credere nelle cose alte, e per esse vivere e per esse morire». Lui c’era riuscito.
Mons. Ennio Apeciti
responsabile del Servizio diocesano per le Cause dei santi e consultore della Congregazione delle Cause dei santi
Rettore del Pontificio Seminario Lombardo
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