di Paolo Rappellino
Tra le vittime del conflitto
«Lavoriamo soprattutto con i minori vittime del conflitto siriano che sono profughi in Iraq e con quelli che pagano le conseguenze del conflitto dell’Isis contro l’Iraq», spiega Ambrosini. «Interveniamo nelle città o nei campi d’accoglienza dove ancora ci sono sfollati e forniamo servizi sociali, supporto psicologico, attività ricreative. Abbiamo poi una piccola attività per i bambini disabili».

L’Iraq corrisponde a quel territorio tra i fiumi Tigri ed Eufrate che sui libri di storia è chiamato Mesopotamia. Quella che fu la “culla della civiltà” oggi è un’area dagli equilibri complessi e precari: la stragrande maggioranza della popolazione è musulmana, ma appartiene a due tradizioni differenti: circa sei iracheni su dieci sono sciiti e oltre tre su dieci sunniti, divisi non solo per questioni dottrinali ma anche per le vicende politiche degli ultimi quarant’anni, poiché Saddam Hussein aveva favorito i sunniti in chiave anti-Iran. Sunniti sono anche i curdi, un’etnia storicamente presente nella zona a nord-est e anche oltre confine, il Kurdistan, che però Saddam aveva perseguitato.
Una terra martoriata
«Per tanti aspetti è stata una guerra civile ed è mancato un percorso di rappacificazione. Quindi permangono tensioni, non solo tra sunniti e sciiti ma anche all’interno degli stessi sunniti: lo scontro oggi è tra tribù e famiglie accusate di avere avuto nella propria cerchia dei combattenti dell’Isis e famiglie che hanno perso parenti. Per questo è complicato chiudere i campi degli sfollati interni, perché molti non possono rientrare nelle comunità d’origine».
Il quartier generale di Terre des Hommes dove lavora Ambrosini si trova a Erbil, nel Kurdistan. La città è inserita tra le tappe della visita di Francesco annunciata nei giorni scorsi e fissata dal 5 all’8 marzo. «Per ora la notizia della visita del Papa non è molto circolata, ma per i cristiani è senza dubbio una bella notizia», spiega Ambrosini. Nel Paese è infatti presente una piccola ma significativa minoranza di cattolici di rito caldeo, il cui numero negli ultimi vent’anni è calato drammaticamente da più di un milione a solo 300-400 mila: molti sono fuggiti all’estero riuscendo a ottenere più facilmente i visti d’ingresso. «Qui musulmani e cristiani sono sempre andati d’accordo», tiene a precisare Ambrosini. «Gli sciiti che hanno preso il potere dopo il 2003 se la sono presa con tutti i gruppi che erano difesi da Saddam, tra questi, appunto, i cristiani. Ma il problema è politico, non religioso».
Un sogno realizzato
Cresciuta in una famiglia aperta al mondo e alla solidarietà (il papà, Maurizio, è un docente universitario esperto di sociologia delle migrazioni, la mamma, Alessandra, lavora alla Caritas), Miriam ha frequentato l’Azione cattolica, dove è stata vicepresidente diocesana del settore giovani, e fin da bambina sognava una professione nella cooperazione internazionale: «In quinta elementare ho fatto la mia tesina sulla Romania, perché volevo conoscere questo Paese sfortunato; in terza media l’ho fatta sulla Tanzania. A 17 anni ho convinto i miei genitori a farmi partire con i “Cantieri della solidarietà” della Caritas anche se ero minorenne. Per fare questo lavoro ho frequentato il Liceo delle scienze sociali e mi sono laureata in Scienze politiche con indirizzo in cooperazione internazionale».
Terminati gli studi, Miriam ha iniziato a lavorare con Aibi – Amici dei bambini, in Italia e in Mongolia, e poi è passata a Terre des Hommes per la quale dal 2015 è in Iraq.
Una scelta di vita radicale, lontana dagli affetti e in un contesto pericoloso. «Ma non c’è niente di eroico», si schermisce la cooperante. «La mia formazione mi ha insegnato che la questione è fare il proprio dovere nelle responsabilità che si hanno. Lavorare qui non è più eroico di quanto lo sia in Italia fare il maestro, l’infermiere o l’ingegnere. Ciò che conta è perché lo fai: anche il cooperante può pensare solo a fare soldi». Ma qualcosa manca a Miriam? «Non avere una vita al di fuori dello schema casa-lavoro. Erbil è una piccola città di provincia, più sicura e “normale” di quanto si possa immaginare: ci sono il centro commerciale e, prima del Covid, il cinema, ma non molto altro. Gli espatriati sono tanti, ma quasi tutti rimangono in missione un anno: è difficile instaurare amicizie di lunga durata». Però le soddisfazioni non mancano: «Quando vediamo che i nostri progetti incidono e migliorano la vita dei bambini o permettono ai ragazzi di lavorare e mantenersi sentiamo di aver fatto qualcosa di buono». E di qualcosa di buono l’Iraq ha molto bisogno.
Un grazie grande e sincero pe quanto opera Miriam in un paese che è stato martoriato per anni dalle guerre. Le auguro che il nuovo anno ormai alle porte possa portare la tanto agognata pace in Iraq e nei cuori di tutti.