Ci sono epoche della Storia nelle quali i cristiani sono chiamati ad attraversare mutamenti impensabili: il Vangelo che comincia a diffondersi tra i pagani, le persecuzioni, Costantino e Teodosio che fanno del Cristianesimo la religione ufficiale dell’Impero, il crollo di Roma e l’avvento dei barbari, lo scisma degli ortodossi, la Riforma protestante, la fine della società tutta cristiana, la secolarizzazione… quante discontinuità!
Oggi ci troviamo in un frangente simile: ce lo ripetono spesso gli studiosi e anche papa Francesco.
Ogni passaggio epocale ha trovato la Chiesa complessivamente… impreparata, ma non del tutto: c’era chi con lungimiranza era riuscito a prevedere le trasformazioni, chi seminava e lavorava alla riforma della Chiesa perché avesse gli strumenti per affrontare le nuove sfide che man mano si presentavano. Per restare nella storia recente, pensiamo ai vari gruppi che hanno preparato il terreno al Vaticano II, che però ai loro tempi erano a volte osteggiati. Infatti c’è sempre stato anche qualcuno che non ha saputo, non ha potuto o non ha voluto accettare i cambiamenti (ad esempio la Curia Romana durante il Concilio, come ci testimoniano alcuni dei padri conciliari stessi).
Quello che vorremmo chiederci ora è: l’Azione Cattolica da che parte sta? Certamente “a servizio di comunità NUOVE”, come dice il Documento Assembleare! Ma ci sembra sfidante entrare nella concretezza delle dinamiche che portano a questo servizio e a questo sogno di rinnovamento.
Una lettura appassionata di due soci di Azione cattolica
Proviamo allora a proporre una lettura della AC ambrosiana su questo tema; lettura che sicuramente è parziale ma proviene da un vissuto grato e innamorato dell’associazione e della Chiesa, prima come singoli, ora come coppia appassionata anche di teologia.
A livello dei responsabili diocesani tutti possiamo percepire una mentalità pronta e disponibile a ri-pensarsi e a ri-formarsi: prova ne è il bel cammino che la Presidenza ha inaugurato nello scorso triennio! La mentalità comune tra i soci e le socie spesso non sembra invece troppo diversa da quella che a volte si respira nelle parrocchie: nostalgia dei bei tempi quando gli oratori (e i gruppi AC) erano pieni, fatica a uscire da un’immagine di Chiesa gerarchica piramidale, immaginario sacro riguardo alla figura dei preti, generoso desiderio di mettersi al servizio del Signore ma fatto coincidere con il mettersi al servizio del parroco, più o meno velati sensi di colpa se non si è operatori pastorali perché dedicati al lavoro o al servizio politico e sociale ecc…
Dobbiamo ammettere che, di fronte ai tempi che cambiano così velocemente, è comprensibile il disorientamento di chi si trovava bene nella Chiesa “di una volta”. Certamente nessuno chiede al singolo di rinnegare la propria storia. Non è sbagliato coltivare la comprensione della fede e la pratica religiosa che si riconoscono come più consone alla propria mentalità.
Il problema ci sembra emerga quando si pretende che questa visione tradizionale debba andare bene a tutti e tutte, e si bloccano le richieste di cambiamento di chi invece in quella mentalità non si riconosce (più), sia giovani che meno giovani: pensiamo a quante domande sono rimaste sospese, nei nostri ambienti parrocchiali, e quanti aneliti sono ignorati, anche a livelli alti della discussione ecclesiale: il rinnovamento della liturgia e della morale, la richiesta laicale di corresponsabilità reale con il clero, il diaconato femminile, la riforma del ministero ordinato (aperto magari anche a donne e uomini sposati), l’inclusione vera di categorie di persone tradizionalmente escluse dalla comunione ecclesiale (divorziati risposati, LGBTQ+…), il riconoscimento di carismi e ministeri laicali… tanti teologi e teologhe lavorano per argomentare la bontà di queste riforme, ma nelle nostre comunità è difficile che trovino risonanza e spazi.
Costruire “comunità nuove”
Ci chiediamo dunque se non sia utile e importante rilanciare una proposta formativa per i soci, eventualmente slegata da quella nazionale, che vada a toccare i nodi teologici in grado di ridare forza a quelle linee conciliari che sono all’origine delle istanze di riforma. Si potrebbe così restituire aria fresca sia alle dinamiche delle comunità ecclesiali ma sicuramente anche, di riflesso, a quelle civili, all’abitare la città, i quartieri, i condomini da cristiani con tante nuove consapevolezze!
Nei responsabili di AC osserviamo una bella sensibilità su questi temi di riforma. Sogniamo che anche nelle sedi istituzionali (Consiglio pastorale diocesano, varie commissioni di Curia, colloqui con l’Arcivescovo ecc…) i soci di AC siano motore di scelte concrete e radicali verso la riforma sinodale, così come auspicato nel Documento per il prossimo triennio dove, al paragrafo 3.3, si invoca una discontinuità nel costruire “comunità nuove” (sia la parrocchia che la Chiesa diocesana): si parla di assumere questo compito “in modo rinnovato”, si sogna una Chiesa capace di parlare “oggi”, ci si impegna ad un “vero cambiamento di passo e di prospettiva con creatività e coraggio”…
Dunque: da che parte stiamo? L’AC Ambrosiana da che parte sta?
In queste faccende non esiste una via neutrale: non fare niente per favorire le riforme, attendendo magari che vengano innescate dall’alto, oppure tacendo per timore di rovinare qualche rapporto… significa purtroppo ostacolarle per inerzia, significa in fin dei conti, anche senza volerlo, remare contro.
Discerniamo insieme, con i teologi e il Magistero, se queste istanze di riforma sono conformi al Vangelo e sono ispirate dallo Spirito Santo… se sì, poi però con coraggio diamo loro vera forma storica, in primis nelle relazioni tra noi.
Per rinnovare: non stare a guardare, e dire dei “no”
Le parole non bastano più. Cioè, non sono mai bastate! La riforma sinodale della Chiesa non avverrà solo se in qualche parrocchia o Assemblea decanale si discute di questo tema, o solo se l’AC organizza qualche incontro di formazione, né se si attende che i cambiamenti provengano dall’alto. La riforma della Chiesa non avverrà se, per quieto vivere, chiudiamo gli occhi su quelle dinamiche ecclesiali dove i laici vengono trattati, per essere espliciti, come cristiani di serie B.
La riforma comincerà forse ad accadere quando si comincerà a dire dei no.
Quando per esempio abbandoneremo l’abitudine di ingoiare il rospo ed evitare il conflitto, che non è salutare per nessuno! Occorre imparare invece a non avere paura di dire la propria e di confliggere in modo costruttivo: in tutte le famiglie e al lavoro è così, perché mai non dovrebbe esserlo anche nelle nostre comunità, nei nostri gruppi di AC, in cui ci professiamo fratelli e sorelle? A volte si pratica più il chiacchiericcio lamentoso che un bel confronto faccia a faccia tra persone adulte, che sanno scambiarsi critiche su idee e azioni, ma senza farne delle questioni personali. Il percorso sinodale è laborioso, costa fatica e ha il suo prezzo: bisogna raccogliere energie psichiche e spirituali per imparare a dibattere bene, ad essere assertivi e insieme a non pretendere di avere l’ultima parola… però il beneficio è grande.
Allora aggiungiamo anche questa provocazione: mantenersi “equidistanti” (magari in alcune situazioni di tensione nei Consigli pastorali o nelle Assemblee Sinodali decanali) forse non è sempre un esercizio di comunione; si rivela al contrario una specie di complicità con chi è pre-potente, ai danni delle persone che vengono zittite o sminuite. Non sempre ce ne rendiamo conto, ma la posta in gioco è alta! La riforma sinodale della Chiesa non è infatti lo slogan linguistico del momento: è il modo con cui la Chiesa può interrompere anche quei comportamenti che mortificano la dignità battesimale, nei piccoli e nei grandi gesti. L’opposto della sinodalità è infatti il clericalismo, definito da papa Francesco “il male peggiore della Chiesa”; esso costituisce anche quella mentalità che crea addirittura i presupposti per gli abusi sessuali e di coscienza da parte del clero. La Chiesa, e in essa l’AC, deve stare dalla parte delle vittime, deve difendere i deboli. Perché combattiamo contro l’assolutismo, il patriarcato, la discriminazione, il bullismo e l’emarginazione nella società e non lo facciamo quando ritroviamo le stesse dinamiche nella Chiesa?
Le parole non bastano più: quante discussioni sono state fatte per decenni sulla valorizzazione dei laici (“è l’ora dei laici”), sul passare dalla collaborazione alla reale corresponsabilità… A volte sembra di ostinarsi a combattere contro i mulini a vento. Forse è il momento di cambiare aria: forse è il momento di andarsene, forse è il momento di abbandonare quei luoghi dove si vede che nulla cambia e dedicare il nostro tempo e le nostre energie negli spazi ecclesiali dove invece un cambiamento è possibile. Qualcuno in effetti ha abbandonato del tutto la parrocchia, qualcuno vaga da una all’altra in cerca del parroco giusto, qualcuno è entrato nei movimenti… ma queste non sono opzioni in sintonia con la nostra sensibilità di AC. Noi amiamo il radicamento, la parrocchia, la scelta popolare!
Noi crediamo fortemente che un laico e una laica di AC sostengano al meglio la comunità e la Chiesa locale… se fanno bene l’AC, perché tutte le nostre proposte non sottraggono le persone dalla parrocchia, sviluppando cammini autoreferenziali, ma sono sempre sintonizzate sulle indicazioni dell’Arcivescovo e a servizio della comunità parrocchiale. Fare bene l’AC significa allora a volte dire dei no ai mille servizi (pur importanti, ovviamente!) che occorrono e vengono richiesti in parrocchia.
In Azione Cattolica un laico ha la dignità che il Magistero gli riconosce: la voce del singolo conta, si possono votare i responsabili, si può diventarlo, gli incarichi non dipendono dalla fiducia del prete ma da quella dei soci, si lavora sempre in equipe, i preti non comandano ma consigliano e assistono, gli incarichi sono a tempo determinato per evitare che un laico si clericalizzi… è molto bello il passaggio del Documento che afferma: “ci sembra importante, come stile di Chiesa, che la responsabilità sia condivisa sempre”.
Perché quindi dare meno “una mano in parrocchia” e dare più una mano in AC? Perché fare l’AC non è sottrarre tempo alla parrocchia, ma il modo migliore per servire la parrocchia (secondo la nostra vocazione) e per esprimere nel modo più compiuto tutte le potenzialità del Battesimo che abbiamo ricevuto. Nel concreto: perché fare la catechista “in parrocchia” e non farlo invece in ACR? Perché dare una mano al parroco per organizzare la formazione degli adulti e non farlo piuttosto nell’AC adulti?
Quanta creatività e spazio di iniziativa abbiamo, come forma associata di essere credenti, per creare quelle condizioni perché lo Spirito sostenga il nostro desiderio di essere… al servizio di comunità nuove!
Matteo De Matteis e Chiara Zambon