Il tempo della pandemia è un tempo in cui sono accadute cose inaspettate nelle nostre famiglie.
E Papa Francesco sembra conoscere benissimo dinamiche, difficoltà e opportunità che si sono verificate. Molti di noi hanno toccato con mano il dolore, la paura, la fatica dell’isolamento, il faccia a faccia serrato con le tante fragilità personali e sociali. Piccoli, adolescenti, giovani, adulti e anziani hanno vissuto in modi diversi l’insicurezza del domani, la mancanza di certezze e di punti di riferimento stabili, la lontananza dai cari e da gesti quotidiani ripetitivi e rassicuranti. In questi ultimi due anni la nostra vita è stata spesso schiacciata dalle preoccupazioni e dall’ansia.
Durante il lockdown e le successive quarantene o isolamenti, il contatto stretto e più prolungato con i propri figli e con il partner ha a volte esasperato i rapporti, deluso le tante aspettative reciproche, reso innaturale e un po’ forzata una convivenza tra generazioni, tarpato le ali ai giovani in una fase di vita in cui dovrebbero essere in uscita dalla famiglia, percorrere la loro strada per diventare se stessi. Ha reso i nostri interni domestici un po’ soffocanti, sempre meno pieni di luce e di ossigeno.
Pensando al nostro modo di affrontare la pandemia rileviamo che ci sono state fasi diverse.
Come genitori.
Prima la responsabilità di essere guida e modello, rassicuranti nello smarrimento del primo periodo, propositivi per dare un senso a quel grande vuoto. Poi la difficoltà di creare uno spazio di accoglienza e legittimazione della voglia, espressa in maniera chiara dai nostri figli, di ricominciare anche a costo di trasgredire, mediando fra il bisogno di rispettare le regole e la necessità di salvaguardare l’equilibrio psichico dei nostri adolescenti.
Come figli.
Prima il rigore e la rinuncia alla relazione, imposta agli anziani soprattutto per il loro bene. Poi la responsabilità di aperture caute, ma costanti per ridare normalità alla vita dei nostri genitori.
Come adulti.
Prima la capacità di cercare equilibrio e autosufficienza in una chiusura necessaria e doverosa. Poi l’importanza di un atteggiamento sano fra la tentazione di rinunciare a ogni cautela per riappropriarsi della quotidiana libertà e il rischio di assolutizzare il ritiro e la chiusura in un isolamento che diventava difesa non solo dalla pandemia ma anche dalla fatica della relazione.
In ogni fase, comunque, la pandemia ci ha donato una consapevolezza nuova: non ci si salva mai da soli, il nostro desiderio di socialità e di fratellanza è naturale e sano, la nostra voglia di aprirsi agli altri ci fa crescere. In una società in cui sempre più ci si isola e si pensa al proprio piccolo mondo, chiudersi dentro agli appartamenti può sembrare solo di primo acchito una via di salvezza perché alla lunga ci logora, ci spegne dentro. Abbiamo sperimentato il bisogno degli altri, più che mai prima d’ora, per superare il devastante manifestarsi della malattia; ma abbiamo avuto bisogno degli altri anche semplicemente perché abbiamo sentito la mancanza forte delle relazioni. E abbiamo capito che non basta “fare gruppo”, bisogna “costruire comunità” con gesti di altruismo e di vicinanza fraterna: la spesa fatta per l’anziano più fragile di noi o per l’amico in quarantena, la chiacchierata al balcone con il vicino magari raramente incrociato in ascensore, la profonda condivisione dello stato di salute dell’altro. Questi gesti sono nati spontaneamente dallo straordinario che stavamo vivendo: la sfida è quella di rimanerci fedeli anche nell’ordinario che stiamo faticosamente riguadagnando.
Forte è l’invito del Papa di andare al di là della propria stanchezza, in uno speciale esercizio di pazienza e di fiducia nel futuro, nonostante tutto, nonostante i bollettini dei contagi mai rassicuranti. Non perché andrà tutto bene, ma perché il Signore ci protegge e ci benedice all’inizio di questo anno e ci promette che ce la faremo, che troveremo delle soluzioni, che supereremo la prova.
Silvia e Simone