Il primo tentativo di scrivere una storia comparata della presenza dei cattolici nelle Resistenze dei vari paesi europei. Lo si deve a Giorgio Vecchio, storico contemporaneista, socio dell’Azione cattolica ambrosiana, che ha appena dato alle stampe il volume Il soffio dello Spirito. Cattolici nelle Resistenze europee (Ed. Viella).
Basata su un’ampia storiografia in più lingue e sulla rilettura della stampa clandestina, oltre che di svariate testimonianze, la ricostruzione delle vicende di paesi come Francia, Belgio, Paesi Bassi, Germania e Austria, Cecoslovacchia e Polonia “consente di presentare ai lettori italiani figure di uomini e donne talvolta sconosciuti persino agli storici specialisti”. L’analisi, chiarisce l’editore, “segue il filo del rapporto tra cattolici, fede religiosa e ricorso alla violenza. In questa prospettiva intende contrastare la tentazione ricorrente di applicare ai cattolici di allora le categorie dell’oggi, come il pacifismo o l’obiezione di coscienza, insieme all’accusa di essere stati imbelli e attendisti”.

Quale la specificità di questo suo libro?
«Possediamo biblioteche intere sulle diverse forme di Resistenza contro l’occupazione tedesca durante la seconda guerra mondiale. Però, quasi tutte non superano i rispettivi confini nazionali”, spiega Vecchio. «In più, esistono gli ostacoli linguistici. I pochi volumi che hanno un orizzonte europeo (nel senso che trattano le vicende dei vari paesi) sono per lo più riassuntivi, oppure toccano problemi specifici, come per esempio, la politica anglo-americana o il contributo dei servizi segreti alleati. Io mi sono concentrato sul comportamento dei cattolici e sulle loro scelte resistenziali. Per questo motivo ho considerato unitariamente i paesi con una consistente o maggioritaria presenza di popolazione cattolica: quelli dell’Europa occidentale (Francia, Belgio, Paesi Bassi) e dell’Europa orientale (Polonia, Cecoslovacchia). A essi ho aggiunto ovviamente l’Italia, ma anche Germania e Austria, dove la Resistenza antinazista non ha avuto per lo più risvolti armati, ma si è mossa sul piano politico e morale».
Cattolici e Resistenza in Europa, il tema specifico di questa ricerca: quali le motivazioni che spinsero ad opporsi al nazismo?
«Le motivazioni sono diverse e muovono per lo più dalla comprensione del pericolo del nazismo, che – come ideologia anticomunista e “nazionale” – ha infiltrato anche ambienti cattolici. In tutti i paesi occupati esiste una componente cattolica (fortunatamente marginale, ma talvolta con personaggi autorevoli) che ritiene possibile una convivenza positiva con il nazismo. Invece, i cattolici più avvertiti capiscono che ciò è impossibile e contrario alla fede. Molti di loro hanno studiato a fondo l’enciclica di Pio XI del 1937, Mit brennender Sorge, e sono consapevoli dei pericoli. Penso in particolare al gruppo di gesuiti (tra cui il padre de Lubac) e di laici che in Francia dà vita ai “Cahiers du Témoignage chrétien”, che sono quaderni monografici ricchissimi di documentazione e di “contro-informazione”. La motivazione – diciamo così – religioso-morale è poi rafforzata dai convincimenti patriottici e da quelli democratici, che una parte dei cattolici europei possiede».

Lei solleva la questione dell’uso delle armi: perché?
«Perché contesto le letture che sono state fatte negli ultimi decenni. Sommariamente, dico questo: dapprima la Resistenza è stata interpretata come un atteggiamento esclusivamente armato (e a larga guida comunista); poi si sono rivalutate le forme di Resistenza “civile” e “non armata” (per esempio con l’opera di salvataggio di ebrei e perseguitati). Al punto, però, che questa seconda interpretazione – molto consona per i cattolici – ha confinato nel limbo le forme di lotta armata. Inoltre, si è spesso pensato di applicare al passato, a quel passato, gli schemi mentali odierni, compiendo un grave errore di prospettiva (che è poi lo stesso di coloro che pretendono che Pio XII avrebbe dovuto usare lo stesso linguaggio di Giovanni Paolo II o di Francesco). In verità, i cattolici della prima metà del Novecento erano stati tutti educati all’uso delle armi. La dottrina della “guerra giusta” era pacificamente accettata e, semmai, ogni Stato (e ogni episcopato) la volgeva a proprio vantaggio. Perciò non esistevano e non potevano esistere forme di non-violenza o di obiezione di coscienza. Non è un caso che opposizioni del genere si siano sviluppate all’interno del Reich, dove una Resistenza armata contro Hitler era impensabile. Il vero problema di coscienza, allora, non era quello sull’uso delle armi, ma sulla liceità o meno di usarle in mancanza di un’autorità politica legittima. Ciò vale soprattutto per gli italiani e per i francesi, mentre altrove l’esistenza di un governo clandestino o in esilio non poneva questo problema. Anche figure leggendarie (e mitizzate) come Teresio Olivelli le armi le usavano o, quanto meno, le raccoglievano per farle usare da altri».
C’è una “specificità italiana”, e del cattolicesimo italiano, nella vicenda resistenziale?
«La specificità è data dalla nostra storia: quella appunto di uno Stato aggressore (l’elenco dei paesi che abbiamo aggredito è bello lungo…), sconfitto sul campo e poi soggetto a un brusco cambio di regime e a una duplice occupazione straniera. La presenza cattolica nella Resistenza italiana è molto più vasta e numerosa di quel che di solito si pensa: paghiamo il prezzo di troppe rimozioni (degli stessi cattolici) e di troppi tentativi monopolistici (da parte soprattutto comunista). Esistono ampie aree del paese dove le formazioni cattoliche erano predominanti, mescolandosi magari con resistenti provenienti dal Regio Esercito, specie dai reparti alpini. Bisogna anche uscire dagli schematismi: nelle stesse brigate Garibaldi esistevano comandanti marcatamente cattolici (Aldo Gastaldi “Bisagno” in Liguria o Luigi Pierobon “Dante” in Veneto, per dirne solo due). Le differenze tra cattolici e comunisti emergevano – non solo in Italia – nelle modalità di conduzione della lotta armata, nel maggior o minore grado di ferocia da usare o nella valutazione dei rischi di coinvolgimento della popolazione civile. La formula fortunata dei “ribelli per amore” è però stata spesso distorta, quasi che i cattolici partigiani non volessero usare le armi. Identificava invece un atteggiamento diverso nei confronti del nemico (che andava combattuto, ma non odiato e, se possibile, salvato), oltre che un riferimento alle motivazioni anzitutto morali della Resistenza, prima che politiche».