La santità non è un libro da riporre in uno scaffale per farne un soprammobile. È un dono per interpretare i tempi e illuminare i giorni che hanno a venire. Non solo dunque è possibile, ma anche necessario cogliere il dono di essa per la vita della Chiesa. Il prossimo 15 maggio sarà canonizzato Charles de Foucauld. Molte cose rimangono ancora da scoprire di lui, per apprezzarlo nella profondità umile della vita che ha vissuto, nell’intensità delle relazioni che lo hanno fatto prossimo dei più poveri e disprezzati, come lui stesso desiderava, ad imitazione del suo Beneamato Gesù. Ora che la Chiesa lo dichiara santo rimane indispensabile chiedersi quale sia il suo insegnamento, quale la sua eredità, quale sia il seme buono di Vangelo da lui vissuto e seminato per questo nostro tempo. Forse, per ritrovarlo, bisogna tornare al giorno della sua morte, il 1 dicembre 1916. C’è un particolare che ha sempre commosso, pur nella sua comprensibile, quasi banale, casualità. Tra gli oggetti sparsi del fortino di Tamanrasset, dopo la razzia avvenuta in seguito alla sua morte, sepolto nella sabbia, è stato trovato l’ostensorio della sua cappella. Era la presenza nascosta del suo Beneamato, di cui ha voluto esserne testimone con la sua stessa vita.
Nei suoi giorni, trascorsi fin dalla sua giovinezza inquieta, in una intensissima ricerca, preferì gli ultimi posti ai primi, la vita nascosta a quella pubblica. Avviandosi verso l’ultima tappa del suo cammino, in uno sperduto villaggio nel cuore del deserto algerino, così annotava nel suo diario: «Scelgo Tamanrasset, villaggio di venti famiglie in piena montagna, nel cuore dell’Hoggar e del Dag Rali, sua principale tribù, in disparte da tutti i centri importanti. Sembra che non debba mai esservi né guarnigione, né telegrafo, né europeo, e che per lungo tempo non ci sarà nessuna missione. Scelgo questo luogo abbandonato e mi ci stabilisco, supplicando Gesù di benedire questa fondazione in cui voglio, per la mia vita, prendere come unico esempio la sua vita di Nazaret».
Quel «sembra che non debba esservi mai…» tradisce un’ardente speranza. Che laddove pare non possa accendersi nulla e tutto sembra perduto, niente, invece, lo è. Che bella speranza sa vedere Charles! E che straordinaria testimonianza è per noi, in questo tempo avvilito da mancanza di immaginazione per il futuro e segnato dalla violenza della guerra. Le guarnigioni, il telegrafo, la presenza di una missione perfettamente organizzata sono certo importanti. Anche Charles ne riconosceva il valore. Il suo stesso fortino di Tamanrasset ne era la prova. Ed è curioso che abbia deciso di vivere proprio lì, alla fine della sua vita. Ma anche questa ordinarietà, apparentemente senza futuro di «venti famiglie in piena montagna, in disparte da tutti i centri importanti», è amata da Dio e abitata da Lui. La capacità di Dio di fare cose nuove, di aprire sentieri nel deserto, laddove la sabbia sembra coprire tutto, di far germogliare un tronco secco, permette di leggere altrimenti la storia. Anche la nostra, così confusa. E di aver pazienza e fiducia, di ritrovare coraggio. Lo aveva intuito profondissimamente per sé e per tutti. A questo chiedeva di legarsi sempre di più. E per questo, ancora, annotava nel suo diario: «Che si degni di convertirmi. Di rendermi tale quale mi vuole. Amarlo, obbedirlo, imitarlo».
Emerge, grazie a lui, un compito per noi: quello di preparare le strade, o forse meglio, tentare di abitarle come Gesù le ha abitate, per trenta lunghi anni, nella «benedetta vita di Nazaret».
Abitare questo mistero, far germinare il seme di questa illuminazione è stata l’opera della sua vita. Arrivando a Tamanrasset, aveva inizialmente pensato che avrebbe dovuto passare il suo tempo a convertire i Touareg. Col passare dei giorni imparò che ci sarebbe voluto più tempo di quanto ne avesse, ma che, nell’immediato, doveva lavorarvi come poteva, in un solo modo: rimanere se stesso, tenere vivo il suo legame con il Beneamato Gesù e cercare di amare ogni persona. Sei mesi prima di morire, il 18 giugno 1916 scriveva: «Amare il prossimo, cioè tutti gli esseri umani, come noi stessi, cioè fare della salvezza degli altri come della nostra, il compito della nostra vita; amarci l’un l’altro come Gesù ci ha amati, è fare della salvezza di tutte le anime, il compito della nostra esistenza». È l’opera della nostra esistenza, la chiamata di sempre, ma così vera e urgente per questi nostri giorni.
Don Cristiano Passoni, assistente generale Azione Cattolica ambrosiana