Nella casa di riposo «San Giacomo» di Varese martedì 8 giugno ’21 muore mons. Mario Riboldi uno «zingaro tra gli zingari» come si faceva chiamare. Dal 1971 al 2018 è stato responsabile per la Pastorale dei nomadi della Diocesi di Milano.
Don Riboldi il 26 settembre 1965 a Pomezia portò Paolo VI in un campo rom dove, sotto una tenda gremita di fratelli e sorelle rom disse: «Voi nella Chiesa non siete ai margini, siete nel suo cuore». Quelle parole diventarono il programma di vita di don Riboldi. Si trasformarono in un programma pastorale itinerante tra i campi rom italiani e dell’Europa. Don Mario Riboldi ha voluto conoscere e condividere la vita del popolo rom negli spazi dove lo si capisce veramente. Solo viaggiando con loro puoi sentire «l’odore delle pecore». La sua parrocchia erano i diversi campi conosciuti e frequentati. La sua canonica una piccola roulotte. La cappella un container e la tenda cucita dalle donne sinti il tabernacolo. Don Mario ha avuto un ruolo decisivo, determinante, nel cammino di beatificazione di Zefiro Gimènez Malla, il primo beato gitano. Incontrai don Mario Riboldi (20 ottobre 2005) nella curia di Milano. Aveva l’inseparabile giacca nera, l’inconfondibile cappello di felpa nera sgualcita, il volto sorridente e un accenno di baffi bianchi. Cosa rara mi rilasciò questa inedita intervista, forse il suo testamento.
Come è nata questa scelta di vivere tra i rom?
«Giovane sacerdote ventiduenne, fresco di seminario, in sella alla mia bicicletta ogni sabato mi recavo per le confessioni al santuario della Madonna di Corbetto. Un sabato incrociai sul prato un gruppo di sinti, senza sapere chi fossero rom mi posi la domanda: chi annuncia il Vangelo a queste persone ? Dopo 52 anni sono ancora qui a rispondere a quella prima domanda. Un’altra ragione, se non la prima, è perché sono sacerdote. In tutta sincerità oggi, chi si interessa del popolo rom non sono i cattolici. Fatta eccezione per qualche sacerdote, suore e volontari di Caritas, si interessano maggiormente più le “sinistre” estreme che hanno questa sensibilità verso la marginalità sociale. In ambito cattolico questo è un problema non solo per i sacerdoti, ma anche per i laici»
Fu tutto così facile e semplice entrare in missione con i rom?
«La mia avventura con i rom inizia nella periferia di Melegnano attorno ai primi anni ’60. Il card. Colombo pensava giustamente alle parrocchie, una prospettiva nella quale il mio carattere non si ritrovava molto. Il cuore aveva scelto la strada con i rom. In preda allo sconforto ero deciso anche a lasciare il sacerdozio. Furono i sacerdoti della zona che, tra il ’68 e il ’69, riferirono al card. Colombo che la mia vocazione era quella di evangelizzare i rom. Il cardinale si convinse e mi lasciò partire in mezzo al popolo rom. Dalla bicicletta passai ad una vespa che trainava un carretto abusivo, nel quale c’era tutto il mio bagagliaio, compresa la macchina da scrivere. Era il ’70, da allora viaggio con i rom»
I rapporti tra rom e i cittadini sono difficili. Non crede ci sia una radicale diversità?
«I rom non li conosce nessuno, men che meno i giornalisti. Il pericolo è quello di scrivere “stupidaggini” che, dai giornalisti, vengano condivise dai lettori. Con i rom ciò che conta è la continuità di impegno. Se li frequentiamo saltuariamente il pericolo certo è scrivere cose inesatte. Dopo una frequentazione quotidiana con loro, di oltre 35 anni, devo confessare che solo ora riesco a intuire con chi condivido questa vita nomade. Non ho capito tutto, ho semplicemente tentato di capire qualcosa. I rom hanno una mentalità radicalmente diversa dalla nostra. Questo è difficile capirlo. Se regali 10 euro a un rom e altrettanti a un gagio (un non rom), il giorno dopo il rom ha zero euro, il gagio ne risparmia almeno tre. L’esempio per dire che il rom vive l’oggi, il presente, nel suo orizzonte non c’è futuro come lo abbiamo noi. I nostri figli vanno a scuola per l’avvenire, i figli dei rom meno ci vanno, meglio stanno. Come in tutti i popoli anche in quello rom ci sono eccezioni, i buoni e i cattivi, chi ruba e chi non ruba. All’Università di Trieste nella cattedra di ziganologia c’è Alex Spinelli di etnia rom. Ci sono rom che non lavorano e altri stressati da super lavoro, come i sinti giostrai. Proprio perché è un popolo nei rom ci sono tante varietà»
C’è una prospettiva di evangelizzazione tra i rom?
«Questo è un problema acuto, grave. Quando sono malati vengono a farsi curare, una volta guariti c’è il richiamo della foresta e se ne vanno. I cristiani si ritrovano insieme alla domenica, questo ritrovarsi puntualmente fa problema ai rom. L’evangelizzazione tocca tutti i popoli e comporta anche cambiamenti culturali, mentali, abitudini. I rom hanno un interrogativo morale perché sono religiosissimi. Per loro l’esistenza di Dio è fuori discussione. Convinzione che si portano da secoli, precisamente da quando migrarono dall’India – loro regione di origine – verso l’Europa. Hanno conservato questa sensibilità religiosa all’indiana, non hanno il cristianesimo. Mancano di cristianesimo, sono religiosi senza capirne il significato. Per i rom esistono solo due sacramenti: il battesimo e il funerale che è una festa di maggiore valore di quella del matrimonio. Per loro il funerale è motivo di grande richiamo. L’augurio più bello che ho avuto da un kalderasha è stato questo “ti faremo un grande funerale”. Più il funerale è grande, maestoso, con corone e bande, più resterà nella memoria delle persone, del clan. Più è maestoso il funerale, più grande è il defunto»
Propone una catechesi particolare?
«Non faccio mai catechesi, ma Bibbia perché la catechesi si inserisce successivamente nella Bibbia. Leggo solo Bibbia, non ho dimestichezza con la teologia o altre discipline religiose. Se parlo della Bibbia i rom ascoltano, se parlo di precetti della Chiesa il discorso si chiude subito. Nella Bibbia c’è tutto, è una grande maestra di pazienza, di lentezza. Dopo tanto girovagare con i rom, non ho combinato molto, ma Dio è paziente, lentissimo. Questo lo capisci se leggi la Bibbia. Con questa lentezza Dio ha plasmato l’umanità, mi sono accorto che questo è la miglior cosa tra i rom. In questi giorni, alcuni sacerdoti di Brugherio pensavano che portassi loro consigli, soluzioni ai problemi che hanno con i gruppi di rom locali. Sono rimasti delusi quando dissi loro che gli “zingari sono un disastro, fanno di tutto per non essere amabili ma bisogna amarli”. Sono bravi sacerdoti, ma non hanno ancora capito cos’è il cristianesimo. San Paolo dice che Gesù ci ha amati quando eravamo peccatori. Se una persona ci segue va tutto bene. La lettura quotidiana della Bibbia mi ha dato questa idea, intuizione: la lentezza. Chi corre è un illuso»
La sua è più testimonianza che evangelizzazione?
«Più che testimonianza preferisco parlare di evangelizzazione diretta. Ogni giorno sono impegnatissimo ad evangelizzare, che significa non leggere sempre la Bibbia, ma imparare la lingua dei rom che serve a comunicare, relazionarsi, con loro. Parlo il Vangelo di Marco in quattro lingue differenti. Mi spiego meglio. Quando parlo di evangelizzazione significa, soprattutto, imparare da loro. Ho trascorso molti anni per imparare i diversi linguaggi rom. Evangelizzare significa non insegnare, ma mettersi attorno al fuoco con i rom e ogni volta che spunta una parola, una frase nuova, annotarsela e scriverla. In questo modo ho raccolto tanti fogliettini che, come un vocabolario, tengo sempre in tasca»
Può spiegare meglio il concetto?
«Significa che devo inculturarmi, ma per farlo occorre tanto tempo e pazienza. Per una mentalità industriale tutto questo è tempo perso, sprecato, non per l’evangelizzazione. Bisogna conoscere le varie mentalità, culture, i differenti modi di parlare e intendere una medesima parola. Devo confessare che mi sono perso un poco. Volendo conoscere tanti gruppi si finisce di non conoscere a fondo nessuno. Comunque mi sono smarrito volentieri. Quando parlo con i rom oggi comprendo di che cosa parlano e di questo loro si sentono onorati. Un giorno due sinti, sentendomi parlare la loro lingua, vollero offrirmi da bere perché si sentirono orgogliosi che un gagio parlasse la loro lingua»
Tra i beati c’è anche un gitano spagnolo. Ce ne vuole parlare?
«Nel girovagare per l’Europa abbiamo scoperto la vita di un gitano spagnolo, venditore di cavalli nelle sagre di paese come si usava nelle civiltà contadine, che venne fucilato con il rosario in mano durante la guerra civile spagnola nell’agosto del 1936. Si chiamava Cefirino Jmènez Malla, detto El Pelè. La notizia ci venne riferita vent’anni fa da don Dino Torreggiani di Reggio Emilia, un autentico pioniere in Italia nell’introdurre una sensibilità pastorale al servizio dei rom. Insieme ad altri sacerdoti spagnoli abbiamo patrocinato la causa di beatificazione, sostenendone anche tutte le spese, il 4 maggio 1997 papa Giovanni Paolo II lo proclamò beato. A seguito della beatificazione abbiamo pubblicato il libro Un vero Kalò, scritto insieme a padre Peraboni, già alla seconda edizione con prefazione del card. C. M. Martini, con l’intento di far conoscere la storia del beato. E’ in arrivo la proposta di beatificazione di una nuova gitana dell’Andalusia di Almeria. Da sette anni abbiamo anche una pubblicazione annuale Rom Sinti con la quale non solo cerchiamo di dare notizie del mondo rom italiano ed europeo ma, anche attraverso questa pubblicazione, vogliamo far conoscere la figura del beato Cefirino J. Malla»
12 giugno ‘21 Silvio Mengotto