GENTE DI POCA FEDE E D’INCERTA RELIGIONE?
La condizione attuale del cattolicesimo italiano
Articolo di Franco Giulio Brambilla
Clicca qui per la versione completa.
La recente inchiesta sulla religiosità in Italia oggi, pubblicata da Franco Garelli dal titolo Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio (Il Mulino 2020) dichiara sin dall’inizio: «Da alcuni anni a questa parte l’Italia religiosa è in grande movimento, per a) la crescita dell’ateismo e agnosticismo tra i giovani, b) l’aumento di fedi diverse da quella tradizionale, c) la ricorrente domanda di forme nuove o alternative di spiritualità» (p. 9). Il campanello di allarme mette in crisi la funzione di “legame culturale della nazione” del cattolicesimo in Italia, che fatica a trovare la strada per «raccordarsi con la coscienza moderna, nonostante la presenza a Roma di papa Francesco» (ivi). Da queste tre direttrici derivano altrettanti spunti per l’azione pastorale della Chiesa.
1. Gente: il cattolicesimo nell’Italia multireligiosa
L’atteggiamento dei cattolici italiani (ma non solo) nei riguardi della religione/fede rivela notevoli tratti di novità rispetto alle due precedenti inchieste (1994 e 2007). È urgente prendere coraggiosamente coscienza dei dati come impulso per leggere le trasformazioni del sentire religioso degli italiani.
Credenza e non credenza in Dio. Il dato costante, che rivela insieme una conferma e un primo scostamento, è l’alta percentuale che manifesta ancora la credenza in Dio o in un Essere superiore, che è del 75% calando in 25 anni di 7 punti percentuali, anche se tale dato resta connotato dal dubbio e dalla precarietà per un 40%. L’area della non credenza o dell’agnosticismo tocca un quarto degli italiani (24%). La sensibile crescita dei non credenti passa dal 18% di venticinque anni fa al quarto della popolazione attuale, spostando una quota del 7/8% tra i due gruppi. Si potrebbe ritenere questo scostamento fisiologico, se non fosse che nella fascia giovanile dei 18-34enni – gli adulti di domani – l’area della non credenza sale al 35%. La sintesi dell’inchiesta fissa un punto chiaro: «Il credere relativo è ormai un dato trasversale alle diverse condizioni di vita» (p. 34).
La maggioranza pensa al Dio del cristianesimo come un padre che ama e si preoccupa dei suoi figli (due terzi) e conferma la fede in Gesù figlio di Dio (70%), pur in declino di un 10/15 % rispetto a venticinque anni fa. Il panorama è più mosso quando si passa all’influsso di tali credenze sulla vita umana: se l’80% pensa ancora che “credere in Dio sia un bisogno dell’uomo”, il dato flette del 15% quando si chiede se la fede dia una risposta credibile i grandi interrogativi dell’esistenza. Risulta assai problematica per molti la sua presa sul vissuto umano. Molto differenziato poi è il riferimento alle immagini di Dio che spaziano da quelle negative ai temi che mettono in discussione la credenza in Dio: il difficile rapporto scienza e fede; la questione del male nel mondo; Dio come proiezione del bisogno dell’uomo.
Ciò configura la situazione di un “credere relativo”, prevedibile nell’epoca di un’idea debole e plurale della verità, corrispondente alla precarietà del vivere nella modernità avanzata. La maggioranza degli italiani resta salda la credenza in un essere trascendente, ma sta profondamente mutando l’esperienza della sua rilevanza nel vissuto umano. Si nota uno scollamento accentuato tra il dato ancora alto e resistente delle credenze e l’avanzare di un sentimento d’incertezza e di evanescenza dell’incidenza della fede sulla vita quotidiana. La pratica cristiana sembra ritirarsi nella palude del sentimento religioso e diventa sempre più difficile collegare il soggetto credente con la realtà creduta. Permane l’idea di trascendenza, mentre stanno evaporando le pratiche con cui aprirsi alla trascendenza, attraverso le forme di vita buona che la vicenda umana continua a offrire, ieri come oggi.
Ne viene un primo compito fondamentale per la teologia e la pastorale. Occorre favorire le soglie della fede, mediante le esperienze con cui la vita si sporge oltre: la nascita e la morte, la crescita e la scelta di vita, l’amore e la professione, la sofferenza e la morte. Se non si riesce a dischiudere in tali vissuti uno spiraglio per la trascendenza è difficile che l’idea di Dio o di un Essere superiore possa essere percepita. Pastoralmente questo comporta di abitare le soglie della vita perché diventino “passaggi di trascendenza”. Occorre ospitare la presenza viva del Mistero Santo ogni volta che la vita ci sorprende, rinasce, si rinnova, oppure è vilipesa e ha bisogno di consolazione e di gioia. La pastorale dei sacramenti deve essere coraggiosamente riletta e ripensata come pastorale della soglia. Se i sacramenti dell’iniziazione e della vita adulta sono ancora un crocevia abbastanza frequentato, bisogna sottrarli alla loro amministrazione routinaria e devono diventare il fiore all’occhiello dell’azione pastorale delle comunità cristiane. Che cosa comporta tutto ciò per la nostra pastorale di iniziazione ai sacramenti?
Il nuovo scenario del cattolicesimo italiano. L’inchiesta di Garelli, oltre al dato generale della credenza religiosa, approfondisce due tratti che caratterizzano il versante soggettivo della credenza in Dio: il forte incremento del pluralismo religioso e la tenuta dell’appartenenza cattolica (p. 47), compresa la trasformazione che il primo dato sta esercitando sul secondo. Se fino a venticinque anni fa le comunità religiose altre dalla cattolica erano solo del 2% e un decennio dopo erano salite al 5%, nell’ultima rilevazione hanno raggiunto l’8%, mutando di fatto lo scenario religioso della nazione. L’aumento è dovuto al fenomeno migratorio, che non ha registrato solo arrivi dall’Africa e dall’America Latina, ma anche da altre provenienze, aumentando la presenza di cristiani ortodossi, musulmani e appartenenti a religioni orientali, che portano con sé il proprio bagaglio culturale e religioso.
Si registra il dato costante di ebrei (0,1%), evangelici (0,9%) e testimoni di Geova (0,5%), mentre le nuove religioni si affacciano con una più forte vivacità, registrando il 2,6 dei cristiani ortodossi, il 3,0% dei musulmani residenti in Italia, oltre ad un resto di religioni orientali (0,5%) o di altri movimenti religiosi (0,4%). Come è facile osservare, la novità rispetto ai censimenti del passato sta nel fatto che le due nuove credenze più consistenti (cristiani ortodossi e musulmani) segnalano vistosamente un mutamento culturale. Soprattutto la presenza dinamica della fede islamica è percepita da ampie quote della popolazione come lontana ed estranea, rispetto al costume culturale della nazione.
Se il cattolicesimo resta maggioritario, lo scenario religioso sta profondamente mutando, perché è permeato da altri credo e appartenenze religiose. Questo spiega anche il cambiamento delle diverse forme dell’appartenenza cattolica. Garelli usa la nota metafora dell’albero e delle sue parti (la linfa, il tronco, la corteccia e il muschio), che il card. Carlo Maria Martini aveva utilizzato in diverse occasioni. L’immagine era efficace perché riusciva a rappresentare insieme la comune appartenenza e il diverso atteggiamento dell’essere cattolici nel passaggio di millennio. Se si guardano concretamente le percentuali, la metafora dell’albero assume oggi un aspetto abnorme: 22,5% linfa; 29,8% tronco; 43,6% corteccia; 3,8% muschio. Prima ancora di descriverne le diversità, questo strano albero appare del tutto innaturale, perché ha il 43% di corteccia: è un albero per così dire corazzato, che non permette molto interscambio con l’ambiente circostante. Che dire di questa evoluzione? Il dato più significativo è il travaso dei cattolici del tronco (convinti ma non sempre attivi), e in parte anche quelli del muschio (selettivi e critici), nei cattolici della corteccia (per tradizione e cultura). Questo cristianesimo etnico-culturale, che rappresenta oltre il quaranta per cento di coloro che dichiarano un’appartenenza cattolica, domanda una seria riflessione. Tale variegato scenario dell’appartenenza cattolica pone, dunque, due questioni: la prima riflette sulla dialettica tra una credenza senza appartenenza e un’appartenenza senza credenza; la seconda che porta a mettere in discussione la novità dell’ultima rilevazione statistica: l’emergere del bisogno di una “religione identitaria”.
La prima questione rivela il dato quasi fisiologico dello scarto tra appartenenza e credenza, perché, da un lato, molti appartengono ad una specie di “sentimento cattolico”, in quanto pensano la religione come serbatoio di valori di cui si apprezzano i codici culturali e morali, senza per questo condividerne la fede e la pratica (appartenenza senza credenza); e, dall’altro, anche da noi si allarga il fenomeno, tipico delle altre nazioni europee, di chi crede in una realtà trascendente senza appartenere a una confessione (credenza senza appartenenza). Alla radice sta la riduzione della fede al sentimento religioso, per il quale la pratica ha valore “espressivo”, e non “costruttivo”, dell’identità e dell’esperienza cristiana. Se la pratica viene abbandonata a questa versione riduttiva e deteriore, essa può essere omessa persino con la nobile motivazione che conta soprattutto la convinzione, il sentire (vado a messa quando mi sento), l’emozione, l’occasione straordinaria (riti di passaggio), e si riduce a un praticare episodico, percepito come eccezione della vita umana.
La seconda questione ci fa comprendere il ritorno di una “religione identitaria”, in cui la pratica cristiana è reificata mediante alcuni suoi marcatori distintivi e identificata nella battaglia di difesa dei simboli cristiani nello spazio pubblico. Qui abbiamo la figura capovolta di una pratica, con i suoi segni identitari, che è sganciata dai suoi contesti di significato e dell’autenticità personale. La separazione di fede e opere è radicalizzata al prezzo di una riduzione sentimentale della fede e di una pratica formalista e culturalista. La fede si ritrae nella coscienza e la pratica è maneggiata come una spada per la difesa dell’identità cristiana nello spazio pubblico. La separazione di coscienza e agire ricade a danno di entrambe.
Tale aspetto propone forse il problema pastorale più urgente: restituire l’esperienza della fede cristiana come prassi credente, un agire che sia sapido, affascinante, attrattivo, nutriente, capace di alimentare i cammini della crescita personale, dell’identità comunitaria e della presenza di servizio e carità nello spazio sociale. La fede senza pratica è morta e la pratica senza fede diventa legalistica: solo una prassi credente, appassionante e spirituale, in un contesto ecclesiale – come è stato in tutto il primo millennio e oltre, nel quale anche l’ortodossia consisteva nell’appartenere a una chiesa che vive praticamente la sua fede – può rivitalizzare la dinamica vitale tra la linfa, il tronco, la corteccia e il muschio dell’albero rigoglioso della fede ecclesiale.
- Di poca fede: le trasformazioni recenti
I due capitoli decisivi dell’inchiesta sono dedicati ai due correlati fenomeni della curva discendente della pratica e dell’evanescenza della dottrina cui segue il deperimento delle evidenze etiche.
La partecipazione ai riti comunitari registra un forte declino in Europa. La pratica comunitaria non è più percepita come un obbligo morale, e con fatica è considerata «un momento fecondo di crescita e di espressione della fede, un criterio vitale di appartenenza a una comunità religiosa» (p. 65). La frequenza ai riti comunitari passa in Italia dal 31,1% di venticinque anni fa al 22% (nel 2007 era 26,5%), a fronte della media del 10% in Europa del Nord, mentre la partecipazione sporadica (qualche volta all’anno) è del 33%. Invece, i due dati in controtendenza sono, da un lato, la partecipazione alta alla comunione (64%) di quanti si recano ai riti comunitari, anche se sono diminuiti i praticanti assidui (nel passato non più del 40% dei praticanti fedeli accedeva alla comunione), mentre il 22% di chi si definisce cristiano non accede mai alla comunione e il 12% solo nelle feste importanti; dall’altro lato, la pratica della confessione registra una forte disaffezione al sacramento: il 30% non si confessa mai, il 16% a distanza di anni, il 26% circa una volta all’anno, mentre non più del 10% ammette di accostarsi al confessionale almeno una volta al mese.
La preghiera individuale e la pietà cristiana è in forte flessione: pregano ogni giorno il 41%, il doppio di quanti frequentano con regolarità i riti comunitari, mentre lo fanno in modo discontinuo il 31%, molti di meno rispetto a quanti partecipano saltuariamente ai riti (48%). Tuttavia, il dato in forte calo è il passaggio dal 60% al 40% della preghiera assidua, mentre tale ribasso è compensato dall’aumento della preghiera discontinua che passa dal 24% a un terzo della popolazione, e più ancora aumenta il numero degli italiani che ha perso la pratica della preghiera, passando dal 17% di venticinque anni fa al 27% di oggi.
I riti di passaggio (battesimo, cresima, matrimoni, funerali). Il trend al ribasso coinvolge anche i sacramenti e i riti che segnano le stagioni della vita umana. È «una curva discendente ancora morbida, che sembra essersi stabilizzata nell’ultimo periodo» (p. 82), perché la maggioranza della popolazione intende solennizzare il momento della nascita, del matrimonio e della morte. Il rito più frequentato è quello del funerale religioso che è praticato dal 68,8% degli italiani, seguito dal battesimo (67,4%) e infine dal matrimonio (60,7%), dati che manifestano un apprezzamento di questi riti sia da parte dei credenti attivi sia di quelli discontinui. Per quanto riguarda il matrimonio c’è da fare una curiosa notazione: il matrimonio religioso ha ancora un apprezzamento del 70%, anche se i dati Istat del 2018 registravano il sorpasso dei matrimoni civili (50,1%) rispetto a quelli religiosi (49,9). Questo dato però calcolava insieme i matrimoni civili di prime e successive nozze dopo i divorzi, mentre ciò non può valere per i matrimoni religiosi. Per quanto riguarda il primo matrimonio la scelta del rito religioso è fatta ancora dal settanta per cento della popolazione.
La religiosità popolare: il pellegrinaggio che conta 5-6 milioni di pellegrini all’anno nelle “cittadelle della santità”, dato che sale dal 15% di venticinque anni fa sino a un quinto circa della popolazione; inoltre, l’atto di fare un voto o una promessa si attesta al 20%, mentre il 39% dichiara di aver partecipato a una processione nell’ultimo anno, così come la domanda di far celebrare una messa per i propri defunti è vicina al 40% in netta ripresa rispetto a dieci anni fa. La sorpresa, invece, sta nel fatto che questi atti di devozione popolare ritornano in auge dopo un periodo di appannamento e sottolineano il bisogno di una pratica più sensibile e visibile, più concreta e corporea, correggendo quel cattolicesimo più spoglio e senza segni, frutto del confronto con la modernità.
L’evanescenza della dottrina Per quanto riguarda la dottrina le precedenti inchieste rilevavano una sorta di “scisma sommerso” con un’adesione selettiva, anche da parte dei cattolici, alle dottrine di fede ritenute fondamentali dalla Chiesa. Molto alta rimaneva la confessione della natura divina di Gesù Cristo e la convinzione che la Sacra Scrittura fosse parola di Dio, mentre già era calata la credenza nell’anima immortale e la certezza nella vita ultraterrena. Comunque tanti ancora aderivano alla credenza nel paradiso, mentre molti di meno affermavano l’esistenza dell’inferno, anche se erano assai di più quanti credevano alla presenza del demonio. Forse il dato più significativo riguarda la credenza nelle realtà ultime, che si affaccia in modo assai più sfocato nelle prime due decadi del secolo XXI: nell’arco di vent’anni la credenza nel paradiso cala dall’80% al 65%, mentre le conseguenti rappresentazioni sull’aldilà sono soggette a dubbi e incertezze. Si può dire che anche la grande prova dell’anno 2020 ha dato conferma ex-post della preoccupante evanescenza della dimensione escatologica del cristianesimo: la comunicazione pubblica della fede è caduta in un’afasia circa la speranza ultraterrena nella risurrezione dinanzi all’ecatombe di oltre 35.000 morti da coronavirus.
La coscienza cattolica sui temi etici tocca la morale pubblica e privata, in particolare la sfera della morale sessuale e dell’etica della vita. Sulla morale pubblica si nota una notevole discrasia tra la condanna verbale del 70% degli italiani circa l’evasione fiscale, la manodopera in nero, l’uso di benefici pubblici senza averne diritto, l’assenza ingiustificata dal lavoro, l’uso di servizi pubblici senza pagare il biglietto, ecc., mentre la coscienza pratica non sembra brillare per particolari virtù civiche non solo in capite, ma anche e diffusamente in membris della popolazione. Questa distorsione tra gli orientamenti di principio e la pratica effettiva sembra un marchio del tipo italico, con un’aggravante che suscita allarme, perché nel mondo dei giovani la “condiscendenza” rispetto a tali comportamenti aumenta di 8-10 punti percentuali.
Sulla morale privata e familiare. Permane negli italiani la condanna del tradimento sessuale del partner (75%), cala di poco la censura delle pratiche di prostituzione (63,8%), si conferma l’ampia accettazione dell’istituto del divorzio (72%), della libera convivenza (74%), configurando una mentalità che non mette in discussione la centralità della coppia e della famiglia, ma consente ampi margini di libertà di realizzazione nel percorso della propria e altrui biografia affettiva. Una svolta è avvenuta sulla pratica dell’omosessualità che, censurata dal 62% di venticinque anni fa, viene oggi ritenuta ammissibile dal 56% della popolazione. Non ha subito significativi scostamenti la valutazione dell’aborto: il 20% degli italiani nega la liceità di questa scelta, ritenendola mai giustificabile sul piano morale; il 52% (in leggera diminuzione) della popolazione ammette l’aborto solo in alcuni casi (per il 70% si accettano tre tipi di aborto: terapeutico, eugenetico, umanitario), mentre aumentano le posizioni più libertarie che ritengono ammissibile l’aborto, quando a deciderlo sono i genitori (11,7%) o la sola madre (16,9%).
Sull’etica della vita o bioetica. Ampio consenso ricevono le tecniche di fecondazione: il 74% degli italiani ammette la fecondazione omologa, pur con qualche limitazione, mentre scende al 62% il consenso per l’eterologa, con cui si ritiene legittimo servirsi di un donatore esterno. Più critico il giudizio sulle mamme-nonne (maternità extratime) e sull’utero in affitto (maternità surrogata): favorevole il 20%, contrario il 40%, mentre il restante spinge alla cautela. Tutto sommato l’orientamento del sentire comune invita ad un’“apertura vigilante”. In questo trend aperturista si nota il dato negativo circa gli interventi genetici sugli embrioni umani, che manifesta, da un lato, la tendenza degli italiani ad essere aperti verso quanti desiderano avere figli, mentre, dall’altro, si mostra “vigilante” (anche se più tollerante rispetto a venticinque anni fa) sulle tecnologie biomediche riguardo alle motivazioni e possibilità che esse consentono. In questo panorama, tutto sommato cauto, fa scalpore il dato eclatante che ammette l’eutanasia, cioè il giudizio favorevole a “porre termine alla vita di un malato incurabile”, che era al 22% negli anni Novanta, passa per il 37% di dieci anni fa e schizza al 63% della popolazione di oggi.
In sintesi, il vasto campo della morale pubblica e privata (della morale sessuale e dell’etica della vita), rappresenta il cambiamento più vistoso dell’ultimo quarto di secolo. Qui il “cambiamento d’epoca” è pienamente all’opera e domanda urgentemente una presa in carico da parte del ministero pastorale della chiesa nel compito di educazione della coscienza cristiana, per invertire il duplice punto di fuga della riduzione sentimentale della fede e della naturalizzazione razionalistica dell’evidenza morale. Una fede senza morale e un’etica senza grazia corrono il rischio di rendere evanescente la fede e di collocare la morale (cristiana) nella sfera dell’irrilevanza. E quindi di rendere la stessa coscienza dei cattolici permeabile all’influsso della mentalità individualistica e dell’ideologia radicale dei diritti dell’io. Per rendere accessibile a tutti l’evidenza etica, la si riduce a una morale della natura, senza l’intervento della fede e della grazia. È urgente ricollegare l’etica alla fede (trascendente e cristiana) e immaginare il confronto con le altre prospettive culturali (e religiose), non riconducendo l’aspetto universale solo alla ragione naturale, ma ad un “comune umano” che può trovare le sue evidenze etiche a partire dalla coscienza della comune chiamata alla vita buona. Una morale della vita buona, ispirata dalla fede, potrà dischiudere promettenti spazi di confronto con altre prospettive culturali e religiose, senza venir meno alla figura cristiana della vita morale.
Su questo punto oggi va registrata una forte polarizzazione nel mondo cattolico. La debolezza con cui si è in difficolta a collegare l’aspetto contenutistico della fede (fides quae) con il sentimento e gli atti della fede (fides qua) non produce forse una comprensione e una presentazione positivistica della dottrina e della morale cristiane e una riduzione sentimentale dell’atto della fede? Questo non pone con urgenza il compito di ritrovare la bellezza di un annuncio biblico in cui racconto e kerygma, storia e predicazione siano presentati in modo circolare e insieme benefico e salutare?
Intermezzo: Sulla chiesa istituzionale. La critica si appunta sull’aspetto organizzativo della Chiesa accusata di troppo potere, di indebita ingerenza politica, di incoerenza tra il dire e il fare, giudizi questi che lievitano di 10-15 punti percentuali in venticinque anni, raggiungendo i due terzi della popolazione. Sui temi della laicità: notiamo indicazioni veramente disparate su tre questioni cruciali: la presenza del crocifisso nello spazio pubblico è ancora sostenuta dai due terzi della popolazione (67,5%), perché è ritenuto un emblema dell’identità culturale e religiosa del paese; il finanziamento delle chiese attraverso il meccanismo dell’8×1000 ha di poco la maggioranza relativa di contrari (46,0%) rispetto ai favorevoli (43,4%, con un 10% di incerti), mentre precedentemente veleggiava tra il 55 e il 60% e segnala un cambiamento di giudizio che richiede una seria riflessione; l’insegnamento della religione sembra invece in controtendenza aumentando, rispetto a 10 anni fa, di circa 7 punti percentuali, confermando l’insegnamento cattolico per circa metà della popolazione, a cui si aggiunge un altro 20% che propugna corsi simili per gli alunni di altre fedi religiose, mentre solo l’8,5% esprime dissenso e un 15,5% ne auspica la trasformazione in un corso di storia delle religioni. Tutto ciò si comprende bene nel contesto di pluralismo religioso, che ha smorzato l’antica diffidenza laica sull’insegnamento della religione, spostando l’accento sulla necessità delle conoscenze della propria e altrui identità, per stare in modo consapevole nello spazio pubblico. Sulla figura storica di presenza della chiesa: più sfumato è il rapporto con la/le figure storiche che rendono presente la chiesa sul territorio: parrocchia, oratorio e altre realtà ecclesiali. Più del 20% dichiara di accedervi con una certa regolarità, mentre è più alta (come si è visto) la quota che vi accede per i riti di passaggio. Il 69% della popolazione italiana dichiara di aver frequentato questi ambienti per il catechismo dei sacramenti e il 52% dichiara di avervi passato tempi e modi di svago e divertimento, di sport e socializzazione, di formazione umana e religiosa, di impegni associativi.
- E d’incerta religione: la sfida delle nuove religiosità
Il rendiconto dell’inchiesta sul sentimento religioso degli italiani termina focalizzando l’attenzione sulla sfida delle nuove forme di religiosità.
Vitalità del sentire religioso degli italiani. La permanenza del rapporto con il sacro ha un indice che resta più alto rispetto al trend al ribasso della pratica religiosa. Esso, nel lungo periodo di questi venticinque anni, rimane stabile a circa il 60%: il 59,1% (59,2% nel 1994 e 66,8% nel 2007) della popolazione percepisce la presenza di un essere superiore che vigila e protegge la propria esistenza; il 46,9% (36,8% nel 1994 e 51,4% nel 2007) sente la presenza e la voce di Dio in alcune vicende della vita; e, infine, il 28,1% (22,1% nel 1994 e 27,6% nel 2007) ammette di aver sperimentato nella propria biografia favori e grazie dall’alto. Di notevole interesse è che la sfera del sacro può evocare anche esperienze negative, ed è sorprendente che nella società dell’incertezza si riproponga l’eterna lotta tra il bene e il male, per cui il dato sull’esistenza di una potenza maligna sale al 40,3% (15,3% nel 1994 e 34,6% nel 2007), mentre si registra una forte parabola ascendente riguardo alla percezione di un contatto misterioso con i propri defunti, che schizza al 40% (22,4% nel 1994 e 35,0% nel 2007).
Nuove forme di spiritualità. Tuttavia, la vera novità emergente anche in Italia riguarda i nuovi movimenti spirituali. È stata posta la domanda su come coltivano “i valori dello spirito”: un 28% dichiara mancanza di interesse per questa sfera dell’esistenza (17% non coinvolto; 11,2% non ha idee chiare). Invece il 70% che presta attenzione alla vita dello spirito può essere suddiviso in tre filoni: il primo filone più consistente (27,4%) è di matrice “secolare”, ricerca l’armonia “psico-spirituale” con se stessi e con gli altri, intesa come una sorta di “centro benessere della mente” che aiuta a fare ordine nella vita, a riflettere su ciò che conta, a godere di quello che si ha, ad amare l’ambiente, a guarire l’ansia delle cose materiali, in una visione immanente della realtà senza riferimento a Dio; il secondo filone (24,8%) riconosce di avere una vita spirituale con matrice religiosa, ma a conduzione autonoma, pur ispirandosi all’universo simbolico delle religioni storiche e agli impulsi dei nuovi movimenti religiosi; il terzo filone (20%), infine, presenta il tratto più consueto di una “vita spirituale” permeata dalla fede in Dio e dall’adesione ai principi di fondo della religione di chiesa.
La sfida più ardua che il tempo attuale pone alla coscienza cristiana (e non solo) e al ministero pastorale è la seguente: «Il pluralismo culturale e religioso sembra porre ai credenti di ogni fede una sfida più sottile e destabilizzante di quella della secolarizzazione, in quanto introduce nella mente degli individui l’idea che ci sono diversi modi di credere (e di rispondere ai quesiti ultimi dell’esistenza), che ogni società e cultura ha le sue forme del sacro, che è difficile ritenere che vi sia un’unica fede depositaria della “verità”» (p. 216). Se il “credere relativo” è il tratto comune della coscienza postmoderna e un Dio plurale può portare a “relativizzare” la propria fede, che cosa comporta – si chiede Garelli – scoprire che la propria religione non è l’unica?
Da qui proviene il compitò più radicale: proporre una presentazione della singolarità cristiana (del Dio cristiano, dell’uomo nel mondo e del suo destino futuro) che non sia né esclusiva né assorbente ogni altra religione, ma si presenti come un’identità aperta. Una tale concezione della singolarità cristiana significa due cose: la convinzione che l’identità cristiana passa non solo attraverso il rispetto, ma anche il confronto attivo con le grandi tradizioni religiose, perché la singolarità di Gesù e della fede in Lui può essere conquistata solo ponendo ogni figura storica del cristianesimo in riferimento a Cristo. Se Gesù è l’assoluto nella storia, allora solo la “sua” storia singolare è rivelazione di Dio e può essere partecipata da tutte le storie cristiane nella misura in cui queste continuano a riferirsi a Gesù.
Quali compiti per il ministero pastorale?
Sul versante pastorale ed educativo segnalo soprattutto due piste:
- Come restituire evidenza spirituale alla pratica della fede? L’indagine di Garelli ha fatto emergere tre evidenze: 1) anzitutto, si nota uno scollamento tra il dato ancora resistente delle credenze in Dio e l’aumento di una forte sensazione di incertezza sulla rilevanza della fede nella vita quotidiana; 2) in secondo luogo, la pratica cristiana sembra ritrarsi nella palude del sentimento religioso e diventa sempre più difficile collegare il soggetto che crede con la realtà creduta, generando un ripiegamento emozionale della fede, l’irrilevanza dei contenuti dottrinali e il conseguente deperimento dei comportamenti morali; 3) in terzo luogo, si fa avanti il bisogno di una “religione identitaria”, in cui la pratica cristiana coincide con alcuni marcatori distintivi, sganciati dai loro contesti di significato e dall’autenticità personale. Queste tre evidenze lanciano due appelli urgenti alla coscienza cristiana e al compito pastorale.
Sul versante pastorale, bisogna prestare grande cura alla prassi credente, perché s’imprima nella coscienza degli uomini come buona e salutare: l’eucaristia ha da essere celebrata come il culmine e la sorgente della vita spirituale dei credenti e il momento fontale della comunità; i riti di iniziazione non sono solo da praticare come “riti di passaggio”, ma come “riti di introduzione” alla vita cristiana ed ecclesiale, perché non sono un compito periferico, ma il momento generante della comunità cristiana; la pratica della Parola personale e comunitaria (meditazione, lectio divina, annuncio, catechesi) è qualificante per la consapevolezza del credente; l’esercizio della carità dovrà essere illuminato e responsabilizzante, coinvolgendo il più possibile le comunità; la presenza dei cristiani nello spazio pubblico ha bisogno di tenere alto il profilo della testimonianza. Se si parla di pratica “spirituale” della fede è per dire che la prassi credente deve essere riscattata da una visione e da un agire solo esecutivo, sciatto, routinario, ma ha bisogno di tutta l’attenzione e la cura, con cui possa riconquistare l’evidenza simbolica che porta con sé. Un cristianesimo di convinzione non può essere vissuto solo con un processo di coscientizzazione del cristianesimo di tradizione, senza che siano coinvolti emozioni, sentimenti, memoria, tradizioni, pratiche credenti, figure ministeriali plurali. Altrimenti la pratica diventerà formale e identitaria, e la fede si esprimerà a lato in modo sentimentale e talvolta sensazionale.
Sul versante educativo e culturale, è decisivo ricomporre l’unità di soggetto credente e di fede creduta. Il preoccupante “scisma sommerso” tra ciò che i cristiani credono e ciò che il magistero ecclesiastico insegna è stato aggravato a partire dall’inizio del terzo millennio anche dal ripiegamento dell’agire morale nella “coscienza privata”, attratta dalle sirene dei diritti dell’individuo propugnati come insindacabili dalla cultura dominante. Ciò ha causato un’impressionante “privazione della coscienza” dei credenti e non solo, che ha perso ogni riferimento oggettivo e autorevole. Infatti, se nelle precedenti rilevazioni socioculturali era in evidenza lo scollamento tra credenza in Dio e incertezza sul destino dell’uomo, la recente inchiesta ha messo drammaticamente in primo piano il “deperimento delle evidenze etiche”, nonostante la battaglia sui “valori non negoziabili”. Tutto questo reclama una vigorosa opera pedagogica della Chiesa con tutte le sue forze intellettuali e morali: il magistero, perché insegni a ritrovare la bellezza della vita cristiana col suo splendore di testimonianza nella vita personale, sociale e pubblica; i cristiani, perché non deleghino ad altri la loro testimonianza in forma consapevole e impegnata; i ministri del Vangelo, perché sappiano raccordare sempre kérygma e catechesi, cuore della fede e implicazioni morali e missionarie; i teologi, perché non smettano l’insonne compito di argomentare la circolarità tra singolarità cristiana e universale umano (religioso e culturale); gli spirituali e mistici, perché facciano percepire alla comunità credente che la vita spirituale tiene uniti lo sguardo di Dio sulla realtà e l’unione d’amore con Lui. Insomma, per meno di una radicale trasformazione culturale e conversione pastorale non è possibile raccogliere la sfida che il tempo presente lancia alla coscienza cristiana.
- Come ripensare la forma ecclesiae della comunità cristiane? Forse il dato più consistente della rilevazione di cui abbiamo dato conto riguarda la vitalità del sentimento religioso e la sua traduzione in forme di vita spirituale “fai-da-te”, senza appartenenza o con partecipazione in gruppi elettivi guidati da leaders carismatici. Il sentire religioso si allontana dalle religioni istituite e dalle chiese tradizionali. Ciò pone in questione la “forma di chiesa” (forma ecclesiae) delle comunità cristiane e la loro trasparenza per essere luogo dell’annuncio accolto, celebrato e trasmesso. Le figure di chiesa debbono passare dall’essere luoghi di socializzazione religiosa a diventare vere comunità della testimonianza: il problema non è solo organizzativo, ma le parrocchie, le associazioni e i movimenti sono chiamati a interpretare la loro presenza sul territorio non tanto in modo geografico, ma antropologico. Se la pratica cristiana vuol essere cammino di vita buona, la sua dimensione ecclesiale non risponde anzitutto al bisogno di comunità, ma l’esperienza comune della fede riveste carattere di testimonianza. Che significa questo?
Papa Francesco in Evangelii gaudium ha parlato con vigore di “chiesa in uscita”, il cui profilo si riconosce nel servizio al povero e nel soccorso alle forme tentacolari della sofferenza e della miseria. Una chiesa povera per i poveri è segno dell’evangelo di Gesù, quando rende autentico anche il vissuto cristiano e trasparente la fraternità ecclesiale. La sintesi della vita nello Spirito è l’agàpe, la carità servizio che diventa carità virtù, perché la carità non è solo relazione di aiuto al bisognoso, ma liberazione dal bisogno, accoglienza e cammino insieme con i fratelli. Una “chiesa in uscita” ha urgentemente bisogno di diventare “comunità della testimonianza”, dove il povero sia accolto e non solo aiutato, il debole riceva prossimità e non solo consolazione, la persona ferita sia accompagnata e non solo curata, chi ha il cuore incerto trovi pane di vita per nutrire lo spirito nel travaglio della vita contemporanea. La chiesa di domani sarà forse apprezzata come crocerossa dei mali dell’umanità, ma il Vangelo di Gesù le chiede molto di più: di essere casa e scuola della comunione, spazio dei liberi legami, tessuto di fraternità, dove uno è accolto per camminare insieme e costruire un destino di vita nella casa comune. Sulla soglia del terzo decennio del secolo XXI s’impone una pausa di riflessione per riprendere con lena la strada.
Franco Giulio Brambilla
1 settembre 2020