Dopo la strage terroristica all’aeroporto di Kabul le lancette dell’orologio della storia possono tornare indietro. Nel dramma del popolo afghano sono migliaia le persone fuggite in altri paesi limitrofi e occidentali. Nei primi giorni dell’esodo l’Operazione Aquila ha portato in Italia 1990 persone, di cui 547 donne e 667 bambini. La maggioranza sono donne e bambini, cioè il futuro dell’Afghanistan. Nella tragedia dei satrapi talebani, oltre agli errori dell’Occidente, ciò che scuote sono le immagini, e la storia, delle donne afghane. Shahaanzard Akbar, presidente della Commissione indipendente afghana per i diritti umani, è convinta che «la vita sarà peggiore per tutte le donne afghane sotto il controllo dei talebani. Non facciamoci illusioni» (Avvenire, 18 agosto ’21).
Donne determinate
Già nel 2006, prima della tragedia di questi giorni, le donne afghane hanno cercato e costruito schegge di futuro. Questo “cercare”, da sempre inquieta i satrapi talebani costringendoli alla costruzione violenta di un burqa, quale penitenziario civile e sociale, del mondo femminile afghano. Impossibile costringere la determinazione delle donne afghane a vivere nel penitenziario di un burqa.
Non sono poche le donne afghane che hanno lasciato segni, radici, indelebili nella storia martoriata del popolo. Dopo la caduta dei talebani nel 2006, le persone che navigavano contro corrente in favore degli strati più poveri della popolazione erano due donne di etnia Hazara: Habiba Sorabi, governatrice della provincia di Bamyan e Sima Samar. Le donne hazare non indossano il burqa (il mantello che copre tutto il corpo e il viso) ma coprono solo la testa. Sima Samar è stata la prima donna hazara ad essersi laureata in medicina all’Università di Kabul nel 1982, fin dal 1986 ha organizzato in Pakistan l’assistenza medica dei profughi afghani. Il marito fu ucciso dai russi nel 1988.
L’anno seguente è proprio Sima Samar a fondare Shuhada, che diviene una delle più grandi agenzie non governative afghane che si occupava di scuole e ospedali. Sima Samar è stata anche vicepresidente del primo Governo Karzai, presidente della Commissione Nazionale dei Diritti dell’Uomo in Afghanistan.
Sima Samar si è battuta con coraggio e tenacia per il suo Paese diventando la donna più famosa e rispettata che ha costruito 68 scuole, 3 ospedali, 5 cliniche, orfanotrofi e centri per donne abbandonate in varie parti del Paese. Bisogna ricordare che a Milano, nel 2006, si costituì il “Comitato Arghosha Faraway Schools”, per costruire scuole in zone remote e svantaggiate nel mondo. Filippo Grandi, Paolo Lazzati, Marco e Maria Rosario Niada furono i membri fondatori. Nell’arco di vent’anni sono state costruite 22 scuole con la presenza di 8000 studenti. Il 4 ottobre 2009 Il Comitato Arghosha organizzò un evento al Teatro Studio di Milano per raccogliere fondi destinati ai nuovi progetti educativi in Afghanistan. Ospite d’onore Sima Samar che disse: «Per noi l’istruzione è fondamentale sin dall’inizio. Sono convinta che l’unico modo per cambiare la mentalità della società sia proprio l’istruzione. Le ragazze per frequentare la scuola camminavano ogni giorno per due ore. Questo testimonia l’interesse e l’importanza che l’istruzione è per questa gente. Per loro è veramente l’opportunità per cambiare vita. In un paese dove le opportunità sono molto ridotte l’istruzione è fondamentale perché crea fiducia nella gente locale, in se stessa, sino al punto che possono alzarsi e camminare con le loro gambe. In qualsiasi paese la forza del cambiamento viene dalla gente locale. La comunità internazionale può aiutare le persone ad arrivare a cogliere tali opportunità anche attraverso il coinvolgimento delle donne, che in Afghanistan rappresentano la metà della società. Le donne devono necessariamente essere coinvolte nel processo di democratizzazione e di pace nel paese. Gli uomini da soli non sono in grado di farlo» (L’Afghanistan di Sima, Segno nel mondo, n. 3, Marzo 2010, pp. 22-23).
Zarifa Ghafari, la più giovane sindaco dell’Afghanistan (29 anni), acerrima nemica dei talebani e conosciuta per il suo impegno a favore delle donne oggi è rifugiata nel Nordreno-Vestaflia. Amina, insegnante di corsi per l’imprenditoria femminile, animatrice dell’esperienza dei “taxi rosa” a Kabul, si è rifugiata a Roma per sfuggire alle possibili ritorsioni dei talebani.
«Imparare a guidare – dice Amina – la navetta e mettermi al servizio di altre donne nel mio Paese è stato un incoraggiamento prezioso per me e anche una spinta al cambiamento della condizione femminile in Afghanistan, ora spero che tutto questo non svanisca» (Avvenire, 25 agosto ’21).
Zakira e la nazionale femminile di calcio afghano sono libere a Sidnay con visti umanitari. Il gesto più dirompente, credo profetico, è stato quello di molte donne che all’aeroporto di Kabul hanno affidato, ai militari e al console italiano, i loro bambini anche in fasce oltre il muro che separava la disperazione dalla speranza.
Ascoltare le donne
Papa Francesco e i vescovi italiani, di fronte al dramma afghano invitano giustamente alla preghiera e alla accoglienza dei profughi. Per quello che sta accadendo in Afghanistan, ma credo nel mondo, oggi pregare significa anche ritornare ad “ascoltare” le donne. Questo vale per tutto il mondo non solo per la Chiesa. Anche se la Bibbia è scritta da uomini la presenza delle donne va cercata, trovata nelle grotte della memoria per ascoltare la loro voce nascosta, ma non cancellata. E’ urgente tornare ad “ascoltare” la voce delle donne come faceva Gesù includendole mai escludendole. «L’ascolto – dice lo psichiatra Eugenio Borgna – non è un semplice ascolto di parole che raggiungono l’orecchio ma vita. Si ascolta anche con gli occhi e soprattutto con l’anima. Si ascoltano i silenzi e le emozioni» (Avvenire, 25 agosto ’21).
Da tempo nella Chiesa papa Francesco ascolta i silenzi e le emozioni delle donne ma i vescovi e i sacerdoti sanno ancora ascoltare le donne?
Nella Bibbia, come nel Vangelo, le donne hanno una inequivocabile umanità. Le loro storie raccontano i vizi e le virtù. Si incontrano spesso nelle crisi più profonde dove sono in gioco i rapporti primari, dove le loro scelte, i comportamenti ci guidano su altre prospettive per superare ostacoli e problemi. I profeti e le donne intrecciano una amicizia tra profezia e femminile sottovalutata e trascurata che, paradossi della storia umana, anche nella tragedia afghana riemerge nel suo straziante dolore. I profeti, come Gino Strada (fondatore di Emergency muore nei giorni dove i satrapi talebani ritornano al potere) e le donne afghane sono stati concreti non astratti. Hanno attivato processi senza occupare spazi di potere. Hanno parlato con le loro scelte, scegliendo sempre di celebrare la vita fino alla fine. A Kabul sono le donne che consegnano i bambini all’aeroporto, ai marines e al console italiano, per salvare la vita e il futuro dei loro figli, il futuro dell’Afghanistan. Per le donne afghane – questo vale per tutte le donne al mondo – la morte e l’amore per la vita è come un giardino per i ciechi che non lo vedono ma lo possono toccare e sentire, come possono toccare e sentire, senza vedere, la nuova vita nel ventre. Le donne afghane ascoltano perché in questi vent’anni hanno visto la vita crescere nelle loro storie personali e collettive. Il rischio dell’Occidente è quello di vedere senza “ascoltare” le donne. Per il cardinale Jean-Claude Hollerich, presidente dei vescovi della Ue, una delle colpe dell’Occidente è stata quella di aver regalato dei sogni alle donne afghane. «Forse sì, lo è, se – scrive Antonella Mariani nell’editoriale di Avvenire – si resterà ad assistere impotenti al loro spegnersi. Negli ultimi vent’anni una nuova generazione di giovani donne afghane si è istituita, ha intrapreso carriere, spesso incoraggiate da onlus e organizzazioni occidentali. La stragrande maggioranza di loro ha lasciato il Paese» (Avvenire, 27 agosto ’21). Da pochi giorni nel mondo è in esilio un patrimonio di competenze e potenzialità straordinarie! Si tratta della futura classe dirigente dell’Afghanistan. «L’Occidente – conclude Antonella Mariani – non deve lasciare morire in una generazione di afghane (e afghani) – la più vulnerabile alle ritorsioni dei talebani – la speranza in un futuro diverso per il proprio Paese, speranze che esso stesso ha installato. Le donne e le ragazze afghane stanno per perdere la loro dignità e la loro libertà, non possiamo lasciarle sole». Per Marco Niada del Comitato Arghosha: «Bisogna mantenere viva la speranza. Tenendo a mente che 11 milioni di giovani oggi a scuola e 300mila all’università sono una formidabile realtà da cui dipende il futuro del Paese. Ignorarla sarebbe pazzia» (Il Sole 24 Ore, 29 agosto ’21)
Silvio Mengotto