L’officina che ci vede provare ad essere artigiane della sinodalità è l’Assemblea Sinodale decanale del nostro territorio; facciamo infatti parte della giunta di questa nuova realtà (che sostituisce il Consiglio pastorale decanale) che ha come scopo quello di promuovere una riforma delle dinamiche ecclesiali in chiave sinodale nei vari decanati. La “teoria” su cosa sia la sinodalità è ormai più o meno chiara… occorrono proprio pratiche concrete capaci di dare percorribilità e dunque giustizia a questa comprensione.
Dunque l’esercizio che dall’anno scorso stiamo facendo, e come noi tanti soci e socie di AC che abbiamo sentito impegnati nella costruzione di queste Assemblee, è quello di attivare pratiche sinodali “dal basso”. Non senza un certo sforzo, questo è da dire! Perchè il “si è sempre fatto così” di una certa comunicazione, di un certo modo di prendere le decisioni, di una certa postura tra noi si insinua anche senza volerlo tra tutti noi, anche tra i soci e responsabili associativi.
Il gruppo e le relazioni
Il punto di partenza non può che essere la cura della forma delle relazioni nel gruppo: siamo uomini e donne con diverse competenze, ministeri, provenienze, culture… ma tutti con la stessa dignità battesimale; questo ci abilita a un ascolto attento e paritetico di ogni componente del gruppo, portatore di storie, di una formazione e di una lettura del territorio preziosa. Il discernimento sulle scelte può anche essere un po’ più lento, ma in questo modo più partecipato, quindi più qualificato e più attento alla voce dello Spirito, che parla attraverso ogni battezzato. Prima che pensare al “fare chiesa”, come AC ci sta a cuore il come “essere chiesa”. E questo non è scontato! Queste assemblee possono allora essere un laboratorio di novità, possono marcare un cambiamento rispetto al passato innanzitutto per come ci percepiamo tra noi quando parliamo, anche quando discutiamo e abitiamo il conflitto, da sorelle schiette e insieme desiderose di costruire qualcosa di bello, e quando si sceglie la direzione da intraprendere.
L’ascolto profondo
Un altro pilastro della nostra sinodalità vissuta è la pratica dell’ascolto profondo: appunto innanzitutto tra noi, senza pregiudizi, senza una meta della conversazione già prefissata, senza che l’espressione del dissenso sia intesa come un voler incrinare la comunione, anzi come suo rafforzamento. Questo franco e appassionato discorso “in famiglia” fa però anche entrare certamente la vita concreta delle persone che ci vivono accanto; quanti cristiani e cristiane spendono la loro vita in contesti molto “laici”, sono il volto di Chiesa dentro il mondo, e spesso non hanno un luogo in cui da una parte essere incoraggiati, dall’altra poter prendere parola per arricchire la comunità. Anche dalle Nazareth più inaspettate, da quei territori periferici, da quelle piccole associazioni, da quei piccoli progetti profetici sorgono semi di rigenerazione del tessuto comunitario, dei nostri linguaggi e finanche della fede. Anche l’interessante testo che sintetizza gli esiti della Consultazione sinodale milanese rileva che nelle nostre comunità c’è un grande bisogno di ascolto: davanti a questo tipo di “povertà”, una strada percorribile è proprio il dono della sinodalità.
Allora, eccoci con delle piste su cui avventurarci, le elenchiamo senza pretesa di essere esaustive. Non sono soluzioni pronte ma suggerimenti, ingredienti che pensiamo utili. Ogni persona e ogni gruppo potrà provare a inserirli nelle proprie ricette, e anche trovarne altri, per fare buona la torta!
- Formazione. Per operare e progettare insieme, bisogna formarsi insieme. Tutti, ma proprio tutti i componenti del popolo di Dio, dovrebbero avere questa opportunità. È necessario avere degli spazi “laboratoriali”, dei contesti facilitanti in cui si possano acquisire voci “altre”, si possa liberare la parola, sperimentare diversi stili di rapporto (equi e paritari), diversi modi di realizzare e condurre le riunioni. È opportuno avere tempi liberi e liberanti in cui si sta insieme per conoscere meglio se stessi e gli altri e per sprigionare creatività!
- “Una parola muore appena detta, dice qualcuno. Io dico che solo in quel momento comincia a vivere.” E. Dickinson. Non sottovalutiamo il potere delle parole (e dei gesti). Antidoto al clericalismo: esercitiamoci nel parlare assertivo, nel pronunciare ciò che molte (troppe volte) è taciuto o espresso solo come confidenza o lamento con la persona amica. È l’assemblea, il gruppo, il luogo dove esprimere il nostro punto di vista per il confronto e il discernimento comunitario. Non temiamo di esprimere pareri contrastanti, tutto serve, piuttosto curiamo lo stile espressivo. Il nostro contributo è insostituibile per costruire le basi di una comunione non di facciata. Non rinunciamo per “quieto vivere” o pensando che la rinuncia favorisca il bene comune. I processi di decisione non vengano chiusi troppo in fretta, impedendo la valutazione delle opzioni possibili e rischiando di appiattirsi sulla narrazione immediatamente prevalente. Non ci sono scuse, i segni dei nostri tempi ci chiedono di partecipare, di co-costruire. E se noi partecipiamo, più facilmente altri/e lo faranno.
- La forma della Chiesa. Abbiamo ormai molte volte ascoltato e letto di un cambiamento strutturale della Chiesa, urgente e necessario. Ora pratichiamolo, costruiamo modelli di vita ecclesiale, nei nostri ambiti di vita. Richiamiamo i consigli, i pastori, le commissioni a valorizzare la vita dei fedeli che ogni giorno si celebra. “Allarghiamo la tenda” delle possibilità decisionali e di discernimento. L’assemblea non deve essere una cabina di regia ma un osservatorio curioso di quanto lo Spirito muove e anima intorno.
- Chiesa diffusa. Questo punto procede dal precedente. La Chiesa diffusa è una comunità che vive in tanti punti, in tante differenti sfaccettature di poliedro, ugualmente importanti e necessarie; ogni parte ha responsabilità nella composizione della forma. C’è un po’ di sforzo da compiere, serve un po’ di immaginazione per capire come praticare ciò: non sempre è facile, perché molte strutture ecclesiali sono ancora centralistiche e verticistiche e le persone, più o meno d’accordo, si adattano. Ma si sa che i cambiamenti avvengono più facilmente se sollecitati da più parti, facciamo la nostra.
- “Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze.” EG 49. Provare, sbagliare piuttosto, ma provare. Certamente non vogliamo andare allo sbaraglio. Qui entrano in gioco la nostra intelligenza, la sensibilità e i modi; ma, per carità, niente esitazioni. In cuor nostro sappiamo che, in mezzo ai limiti piccoli e grandi delle nostre vite, abbiamo visto e udito l’evangelo nelle nostre situazioni quotidiane, nelle nostre case, nelle scuole, nelle associazioni, nei luoghi di cura. È dove abbiamo visto anche solo un po’ di attenzione, di tenerezza, di giustizia, di coraggio: predichiamolo. Non pensiamo a un centro da cui solo, a raggio, si diffondono saperi, idee, proposte. La Chiesa diffusa riconosce e valorizza la creatività diffusa e l’intelligenza collettiva, generando bene comunitario.
- Coltivare la capacità di osservare con capacità critica la realtà. Stare bene in una casa non significa non vederne difetti e mancanze, anzi si può dire di essere a casa e di amare, proprio quando si matura la coscienza che la realtà è complessa e ha molte sfaccettature, non sempre piacevoli e positive. Ogni processo di miglioramento si avvia se si riconoscono limiti ed errori, da cui partire per cambiare le cose. Possono aiutare: la curiosità e l’apertura mentale, una visione sistemica e non parcellare/settoriale, a volte – diciamolo – un po’ di distacco e di autoironia. “Perché per credere davvero, bisogna spesso andarsene lontano e ridere di noi come da un aeroplano.” Da Ipotesi per una Maria di Gaber, Luporini.
- Il lavoro sugli stereotipi e i pregiudizi, sulle discriminazioni (per etnia, genere, religione, abilità, posizione sociale etc…) è essenziale, è un lavoro evangelico. Non è che a volte ci sentiamo un po’ immuni, come se l’appartenenza alla Chiesa ci rendesse già “a posto”? Proponiamo una sana autocritica e un ascolto attivo di chi ci fa notare aspetti di autoreferenzialità ed esclusione: abbiamo da “convertire” atteggiamenti, linguaggi, mentalità. Il problema è rendersene conto: il primo passo è la consapevolezza e questo passo è doloroso e faticoso perché richiede ascolto di qualcosa/qualcuno che dà fastidio, di una critica, di una diversità.
- Dissenso e divergenze come momenti di conoscenza e apprendimento. Importanza dei facilitatori. La generazione di spazi creativi e di mutuo apprendimento dovrebbe essere promossa e facilitata. Nel gestire ciò, dopo diversi mesi di lavoro, abbiamo provato a immaginare un’assemblea sinodale come uno di questi contesti. Il dissenso ha in sé un potenziale creativo ma è necessario un metodo. Abbiamo sentito il bisogno di chiedere aiuto a persone esterne all’assemblea, figure con competenze di tipo psicologico, educativo, sulla formazione per adulti. Abbiamo avviato un percorso di accompagnamento formativo in questo senso, con esperti e facilitatori che ci aiuteranno a proseguire il cammino con maggior consapevolezza delle dinamiche partecipative e decisionali.
- Avviare processi e praticare quanto negli anni ascoltato, discusso, studiato, pregato, anche nell’esperienza associativa. Nella nostra esperienza sinodale di decanato, all’inizio nel Gruppo Barnaba e poi in assemblea, abbiamo cercato di tracciare un sentiero. A volte il terreno sembrava bloccare il passo, un po’ come se i piedi fossero costretti a posarsi all’interno di orme già segnate. A volte ha prevalso lo stupore per alcune sintonie e sinergie tra noi e con le realtà incontrate. Il cantiere è aperto e noi andiamo avanti, perché questo cammino sia un cammino di cura, della comunità ecclesiale che si prende cura di sé e delle proprie relazioni. Vi daremo aggiornamenti!
Maura Bertini, Chiara Zambon del gruppo teologico AC