ASSISTENTE DI AC/1: “HA APERTO NUOVE STRADE AI GIOVANI”
È difficile scrivere anche poche parole quando un amico muore. Giorgio Vecchio ed io eravamo responsabili dei giovani di Ac quando don Giovanni era assistente diocesano del settore giovanile. Abbiamo collaborato con lui molto intensamente. Eravamo in giro tutte le sere a parlare della proposta dell’Azione cattolica. Io ho collaborato con lui quando ero responsabile del Centro studi, creato sia per i giovani che per gli adulti al fine di condividere i contenuti della nostra proposta. Siamo stati veramente amici. Con lui era difficile non esserlo; era accogliente, sorridente, attento ai bisogni degli altri, affettuoso, sempre rispettoso della persona, dell’altro e della sua storia.
Insieme mostrava una grande apertura ai problemi sociali senza scoraggiarsi mai. Vivevamo in tempi difficili nella Chiesa ambrosiana; occorreva un ripensamento della proposta di fede che fosse credibile per i giovani del ’68. Per lui questa è stata una sfida che ha saputo affrontare con intelligenza e coraggio, aprendo strade nuove ai giovani.
Antonietta Cargnel
ASSISTENTE DI AC/2: “FEDE RADICATA, ANIMO SERENO”
È trascorso ormai mezzo secolo da quegli anni Settanta ruggenti e tragici, nei quali mons. Giudici (anzi: don Giovanni e basta) fu assistente diocesano del Settore giovanile dell’Azione cattolica, prima di occuparsi ad interim dell’intera associazione ambrosiana. Appena nominato, si trovò ad affrontare e gestire una crisi gravissima, causata dalla definitiva spaccatura tra l’Ac e Cl e culminata con le dimissioni in blocco dell’intera dirigenza del Settore. Fu quello il momento, nel 1972, nel quale Antonietta Cargnel e io fummo chiamati ad affiancarlo, come responsabili laici. L’Ac era davvero nel mirino, a quel tempo, perché accusata di aver “tradito” per via della sua “scelta religiosa”, ingiustamente vista come abbandono di ogni impegno pubblico. Il referendum sul divorzio del 1974 accentuò tali accuse. In questi frangenti, perfino il mite don Giovanni fu posto sotto accusa, addirittura giocando maldestramente su un’omonimia allora circolante. Nella migliore delle ipotesi, egli era colui che non era in grado di vigilare su quei giovani “comunisti” che pullulavano in via Sant’Antonio. Niente di più falso.
Don Giovanni era uomo tutto d’un pezzo, ligio alla Chiesa e alla sua gerarchia. Di larghe vedute, ma non certo un rivoluzionario, aveva il dono di saper ascoltare, guidare, orientare i “suoi” giovani. In particolare, sul piano della fede, che incitava ad approfondire e a coltivare attraverso la preghiera, lo studio, la discussione. Chiamava in causa, per questo, amici come don Giovanni Moioli, don Luigi Serenthà, don Giuseppe Angelini, don Pierangelo Sequeri. Teneva agli incontri tenuti all’Eremo di San Salvatore, un luogo più che adatto a questo sforzo di spiritualità.
Il tutto veniva da lui fatto sempre con molta dolcezza, con un sorriso pacato, che rivelava come la sua, di fede, fosse profonda, senza tentennamenti. Una fede radicata in un animo sereno, che – a noi giovani e sicuramente a me – appariva segno di un’umanità intimamente pacificata. Soltanto in un’occasione alzò la voce nei miei confronti, quando in una riunione della presidenza, nel 1975, io usai qualche parola di troppo nei confronti dell’arcivescovo card. Colombo, del quale si stava dicendo che non avrebbe gradito una donna alla guida dell’associazione. Don Giovanni mi richiamò immediatamente al rispetto dell’autorità. Quella donna, peraltro, presidente lo sarebbe diventata: era, naturalmente, Maria Dutto, con la quale don Giovanni seppe, una volta di più, costruire un rapporto di grande confidenza e di reciproco sostegno. Proprio per ricordare Maria, don Giovanni mi inviò alla fine del 2022 un breve, ma commosso ricordo, poi pubblicato nel volumetto biografico della Dutto.
È superfluo aggiungere che il debito mio, e degli altri amici di allora e di dopo, nei confronti di don Giovanni non è grande, è grandissimo. La riconoscenza nei suoi confronti si estende anche per un altro aspetto fondamentale: la testimonianza da lui quotidianamente data, della possibilità di un rapporto di amicizia cristiana con gli altri assistenti don Antonio Barone, don Erminio De Scalzi, don Mario Novati e anche don Giampiero Crippa. Un’amicizia che non escludeva discussioni o persino baruffe, ma che, si capiva bene, era reale e tanto significativa, specie per quei ventenni che, come me, erano più abituati ai litigi tra preti che non alla condivisione profonda.
Giorgio Vecchio
EDUCATORE E PASTORE: “PADRE, FRATELLO, AMICO”
Don Giovanni ci ha lasciato. Per la mia generazione, don Giovanni è stato un fratello maggiore e un amico. Da poco ordinato sacerdote, fu assistente diocesano dei giovani di Ac, in anni difficili per l’associazione e turbolenti per la società. Dentro un affiatatissimo collegio assistenti, insieme a don Antonio Barone, don Erminio De Scalzi, don Giampiero Crippa, con i quali faceva anche vita comune nella mitica comunità di San Giorgio a Milano. Ebbe sempre un rapporto di grande stima e amicizia con i laici responsabili di allora. Ricordo in particolare i presidenti diocesani Livio Zandrini e Maria Dutto. Con essi, don Giovanni fu protagonista negli anni belli e tormentati del dopo Concilio. A lui e ai suoi collaboratori si deve una sorta di “rifondazione” del settore giovanile di Ac a valle della traumatica separazione di Comunione e liberazione. Con il problema di ricostituire l’intera trama dei laici giovani responsabili diocesani. Un passaggio che egli visse intensamente, anche perché, da giovane, in quel di Varese, aveva partecipato all’esperienza della prima Gioventù studentesca. Un tempo nel quale, in diocesi, al vertice e tra il clero, montava la tentazione dell’abbandono dell’associazione.
Per noi giovani di allora, don Giovanni fu educatore e pastore impareggiabile, che seppe coniugare autorevolezza e condivisione. Grazie alla sua singolare, contagiosa umanità e alla sua apertura ai tempi nuovi, egli si fece compagno di strada di noi, una generazione inquieta e in ricerca. Ripeto: accompagnandoci rispettosamente, senza farci mancare, quando necessario, l’aiuto a un più maturo discernimento.
Fu parroco e vescovo. Braccio destro fidatissimo del cardinale Martini, prima vicario a Varese e poi suo vicario generale, che tanto lo stimava e gli voleva bene – oggi sento di poter rivelare una confidenza dello stesso Martini: egli avrebbe gradito che don Giovanni avesse potuto succedergli alla guida della diocesi di Milano –, poi vescovo amato di Pavia e, infine, rientrato nella sua Varese negli ultimi anni segnati dalla malattia.
Come dimenticare il suo tratto amabile e accogliente, il suo largo, schietto, contagioso sorriso che spesso esplodeva in una fragorosa risata? Che non aveva nulla di trattenuto clericalismo. Un tratto inconfondibile che lo ha accompagnato per tutta la vita, del quale hanno goduto tutti coloro che lo hanno conosciuto. Sino ai suoi ultimi, sofferti giorni.
In queste ore nelle quali ci sentiamo come mutilati, quasi che un pezzo di noi e degli anni più belli della nostra vita ci fossero strappati, ci consoli il pensiero di avere avuto il privilegio di avere goduto dell’amicizia con un uomo e un prete speciale. E pensiamo a lui, con il sorriso di sempre, abbracciato al suo Signore che di sicuro lo ricompenserà del tanto bene che ci ha donato.
Franco Monaco
IL PRETE AMICO CON UN AUTENTICO ANIMO CONCILIARE
Anteprima. Io e Angela abbiamo conosciuto don Giovanni Giudici quando avevamo 16 anni e lui 33 all’Eremo San Salvatore di Erba, in occasione di un ritiro spirituale, prima di incontrarlo frequentemente in Centro diocesano di Ac e durante le vacanze alla Benedicta a S. Caterina Valfurva. Anche quando ci siamo sposati non gli abbiamo mai dato del “tu”; per noi era un segno di rispetto e riverenza, pure in un rapporto di intensa amicizia e forte intimità spirituale.
Quando, dopo il matrimonio, ci siamo trasferiti nel Varesotto abbiamo scoperto tante cose sul giovane Giovanni. Si tramandava ancora la voce nei primi anni Ottanta che le ragazze della Varese bene avessero versato più di una lacrima alla notizia che il figlio del primario di ginecologia dell’Ospedale di Circolo a Varese e sindaco di Marchirolo avesse deciso di entrare in seminario per farsi prete. Dopotutto, non era soltanto un bel fioeu, ma era anche un buon partito. La parrocchia di Bosto in occasione della prima messa fece un opuscolo, che ancora conservo, in cui don Giovanni aveva i capelli e come padrino della prima messa aveva avuto nientemeno che il professor Giuseppe Lazzati.
Don Giovanni secondo la misura evangelica è stato un “pastore bello” (mia moglie lo ha sempre sostenuto anche secondo i canoni estetici), un cristiano che aveva un’intensa vita di preghiera, con una straordinaria passione educativa, coltivata con il massimo rispetto della libertà di coscienza per ciascun individuo che incontrava nel suo ministero sacerdotale. Valorizzava le giovani e i giovani a lui affidati (di ciascuno si chiedeva “che cosa potremmo chiedergli di fare nella Chiesa e nella associazione?”).
Ultimamente, poi, con un po’ di orgoglio e di legittima contentezza lasciava trasparire la sua soddisfazione nel constatare che molti di essi avevano fatto strada nel mondo delle professioni, della docenza universitaria, nella vita politica e in campo ecclesiale.
Era attraversato da un autentico animo conciliare, ma non era uno spirito ribelle, coltivava ed educava a uno stile di obbedienza sincera (talora sofferta) nei confronti dell’autorità della Chiesa. Visse l’esperienza di presidente di Pax Christi italiana come una sorta di liberazione: “Finalmente posso dire tutto ciò che penso in piena libertà, tanto i miei confratelli mi hanno messo lì per fare quello… e mi sopportano”.
Era alieno da ogni aspirazione carrieristica, svolse tutti i compiti che la Gerarchia gli affidò, anche se noi pensavamo e continuiamo a pensare che non sempre sia stato ricompensato a dovere negli incarichi ricevuti, conoscendo le sue doti di governo e le sue qualità intellettuali, pastorali e spirituali. Quando gli fu annunciata la sua elezione a Vescovo (oltre a dimenticare il portafoglio a casa per l’emozione e presentarsi al casello autostradale senza carte di credito…), non fu affatto compiaciuto e soddisfatto per la designazione, piuttosto fu preso da un senso di timore e di preoccupazione per la responsabilità e la missione che gli venivano affidate.
Era un uomo vero, capace di grandi amicizie, di slanci di tenerezza e generoso nei confronti di quanti erano in difficoltà. Si sforzava nell’arte dell’ascolto, anche quando si imbatteva in persone con sensibilità e attitudini diverse dalla sua formazione. Coltivava rapporti intensi con i confratelli e con diverse famiglie, con cui stabiliva un legame forte, ma mai prevaricante. Dava consigli quando gli venivano richiesti, ma aveva un sacrosanto rispetto della libertà altrui, pur non temendo di esprimere delicatamente il suo dissenso o il suo diverso punto di vista.
Tra le personalità della Chiesa che più ha amato e stimato – esclusi i viventi – sono da annotare Paolo VI, il professore Giuseppe Lazzati, Maria Dutto e, naturalmente, il cardinale Carlo Maria Martini.
Per concludere, come già scrissi qualche anno fa in morte del cardinale Martini, il nostro “corpo a corpo” con i santi in cielo continua. Non mancheremo di aggiornare don Giovanni sui nostri fallimenti e le nostre speranze, sulle nostre manchevolezze e i nostri sogni per una Chiesa più sciolta e coraggiosa, nonché per un’umanità che fatica ad essere redenta. Scriveva l’arcivescovo Martini per la festività di Ognissanti del 1999: “I santi del cielo sono più vicini a noi di quanto ci sono vicini sulla terra coloro che amiamo; essi ci conoscono più profondamente e ci amano più fortemente di quanto non ci abbiano conosciuto e amato sulla terra. I santi sono molto più presenti a noi, molto più capaci di operare e di intercedere per noi, di quanto lo erano sulla terra; sono perciò davvero i nostri grandi amici, sempre pronti a conversare con noi”.
Marco Vergottini
CI AVEVA EDUCATI AD ESSERE LAICI TUTTI D’UN PEZZO
È difficile per me prendere la parola per ricordare don Giovanni, anche perché, avendolo sentito al telefono poche ore prima della morte, ciò che è accaduto mi pare ancora più “estraneo”.
L’ho conosciuto ormai moltissimi anni fa: nella mia tradizionale parrocchia briantea, in gennaio, per le ragazze si teneva ancora il triduo in preparazione alla festa di s. Agnese e una sera comparve don Giovanni. Non ricordo esattamente l’argomento, ma, alla fine, mi ha fermato, parlandomi – direi – cautamente dell’Azione cattolica e di quello che si intendeva fare in decanato. Io, cauta a mia volta, dissi che ci avrei pensato; per altro, ritenevo che la cosa sarebbe finita lì senza conseguenze, per cui non erano necessarie altre parole.
Tuttavia la “cosa” non finì lì!
Quello fu solo il primo momento di una profonda conoscenza, ma soprattutto di una lunga amicizia che si è poi snodata nel corso degli anni. L’approfondimento dei temi conciliari, la riflessione sul ruolo dei laici, la passione per la Chiesa, che lui proponeva ai giovani, a me hanno aperto un mondo: può sembrare incredibile, ma, pur essendo terminato il Concilio Vaticano II solo da una decina d’anni, i suoi echi non erano certo arrivati in una parrocchia “periferica” come la mia e come in tante altre parrocchie della diocesi.
Quell’orizzonte che ci veniva spalancato non dovevamo trattenerlo per noi: di lì la sua pazienza nell’insegnarci a parlarne agli altri. Ricordo la prima volta che fui costretta a parlare in pubblico, questione per me al tempo improponibile. Avendo don Giovanni uno spiccato senso dell’humor, si accordò con il responsabile dei giovani della mia zona: in una serata in cui dovevano loro due presentare varie iniziative, a metà pomeriggio fece sapere che non sarebbe venuto e Pierfranco, il responsabile, arrivò con tre quarti d’ora di ritardo, assolutamente inconcepibile perché era uno che spaccava il secondo! Io fui costretta a parlare e poi a subire le franche risate dei due che avevano architettato il tutto alle mie spalle! Oggi mi colpisce il fatto che don Giovanni e Pierfranco, rimasti anche loro amicissimi per tutta una vita, se ne siano andati a distanza di un giorno l’uno dall’altro.
Moltissimi sono i ricordi che si affacciano alla mia mente, sempre gioiosi, persino, quando non comprendeva fino in fondo alcuni comportamenti o alcune scelte dei “suoi” giovani, ma restava rispettoso a guardare, magari dentro di sé un po’ triste o preoccupato, senza però far trasparire i pensieri.
Non solo l’Azione cattolica, ma poi la politica, di cui era curioso indagatore e fine analista, l’esperienza ampia della diocesi: ci accadde così di stare su due fronti diversi, lui, vicario generale, ed io commissario del Policlinico, entrambi fermi nelle reciproche posizioni e consci delle rispettive responsabilità. Anche in quel momento ho avvertito la sua amicizia e il suo rispetto, in fondo era stato proprio lui che ci aveva educati ad essere laici tutti d’un pezzo e, in quel piccolo scontro, un po’ forse si è compiaciuto di esserci riuscito!
Daniela Mazzuconi