L’Azione cattolica ambrosiana, avvertita l’esigenza di una riflessione urgente e approfondita sul versante educativo, ha chiesto al prof. Luciano Caimi un contributo di pensiero sul tema. La Presidenza diocesana – dopo un confronto interno – accoglie e sottoscrive il presente testo, ne fa uno strumento di lavoro per l’associazione, e lo diffonde come contributo valido anche per un più ampio confronto in Diocesi di Milano, con particolare riferimento alla Cordata Educativa.
L’educazione ci sta molto a cuore. Ma da tempo la avvertiamo come compito di crescente difficoltà. Al punto da domandarci se sia ancora possibile. Ci sembra che tutti i convincimenti maturati in proposito e a partire dai quali abbiamo profuso le nostre energie di educatori (come genitori, insegnanti, responsabili di associazioni ecclesiali ecc.) siano divenuti carta straccia. Percepiamo una sensazione di inadeguatezza. Tanto da cogliere in noi una sorta di scoramento, una volta impensabile, e la voglia di mollare. «Non riusciamo più a capire i nostri ragazzi, adolescenti, giovani: quali pensieri abitino la loro mente, quali desideri stiano nel loro cuore, quali attese animino le loro vite», si sente da più parti. La cosiddetta “realtà aumentata”, che, “h. 24”, tramite il prodigioso armamentario comunicazionale info-telematico, popola le loro giornate e le loro lunghe notti, li proietta in mondi e in orizzonti visuali-emozionali a noi perlopiù ignoti. Ci pare di vivere in territori “altri”, di parlare linguaggi troppo diversi senza disporre di validi “mediatori linguistici”. Insomma, per farla breve, come adulti viviamo un tempo di disagio educativo.
Eppure… eppure… appena ci ritraiamo un poco dallo scoramento, rientriamo in noi stessi, condividiamo riflessioni e preoccupazioni con amici e amiche, sentiamo riemergere prepotente il richiamo alla responsabilità dell’educare, un compito rispetto al quale “non ci è lecito disertare!”. Torna allora la voglia di rimetterci in gioco, con i nostri limiti, dubbi, ma anche con lo spirito generoso (ed entusiasta: permettiamoci questo piccolo auto-elogio!) di sempre. Persuasi che la “sfida” debba essere raccolta senza indugio.
A tale proposito, ci viene in mente quanto il card. Martini scriveva nel Programma pastorale del 1987, Dio educa il suo popolo. Egli osservava, fra l’altro, che: «Educare è difficile», ma «è possibile» e richiede, innanzitutto, di «prendere coscienza della complessità»; con il convincimento che si tratta di «cosa del cuore» (don Bosco); per concludere che «Educare è bello».
La complessità
Già, la complessità! Una categoria interpretativa del nostro tempo, che sta a significare un dato incontrovertibile: l’interconnessione fra una molteplicità di fattori culturali, sociali, scientifici, tecnologici favorita e ingigantita dal formidabile sviluppo dei sistemi di comunicazione e dall’accrescimento della mobilità su scala planetaria, in un quadro di globalizzazione dei mercati, della tecnica, delle culture, dei grandi eventi, delle mode ecc. Ciascuno di noi, senza soluzione di continuità spazio-temporale, è avviluppato in un reticolo multicolor, con un’infinità di effetti, stimoli e messaggi allo stato brado, dove è arduo districarsi. Questo vale, ovviamente e in primo luogo, anche per i nostri ragazzi, adolescenti, giovani. Forse, rispetto a noi adulti, ancora più indifesi, quindi incapaci di fare un briciolo di ordine e di discernimento nella matassa avvolgente delle sollecitazioni, stimolazioni, opportunità quotidiane da cogliere.
D’altra parte, sappiamo da tempo che la complessità del nostro sistema sociale e delle stesse nostre vite in un contesto avanzato (cioè occidentale) è liquida (Z. Bauman). Per sua natura, sfuggente e pervasiva, come ogni liquido versato, capace di spandersi su qualsiasi superficie e d’insinuarsi in qualsivoglia interstizio. Tale pervasività senza argini è bene rappresentata dalla rete, figura iconica del nostro habitat, in cui transita senza sosta una massa indistinta, caotica di suoni, immagini, sensazioni, pensieri, provocazioni, fake-news.
Questo favorisce, a partire dai millennials, una condizione socio-antropologica nuova, dove diventa arduo trovare punti di ancoraggio sicuro. Tutto è frammentato, non lineare e in continuo movimento, comprese relazioni e legami interpersonali. Pertanto, “quotidianità” e “frammento esperienziale”, più che “futuro” e “sguardo d’insieme”, costituiscono i parametri di riferimento delle nuove generazioni. Da qui, non “posture” di specifica determinatezza anche valoriale, ma piuttosto “nomadismo” culturale e “sperimentalismo” esistenziale.
Una condizione socio-antropologica, l’odierna, “spiazzante” per l’educazione. Ma, lungi dal gettare la spugna ‒ come detto ‒, occorre raccoglierne compostamente le “sfide”, avendo, nel medesimo tempo, attenzione alle pur timide e acerbe opportunità inedite.
Certo, l’azione educativa, se non vuole smentire sé stessa, è sempre consegna di un patrimonio di conoscenze, valori, competenze da una generazione all’altra. Sennonché, la catena di trasmissione oggi non appare né automatica né fluida. Questo, per il sopra menzionato spaesamento di molti adulti, incominciando dai genitori. Sino a qualche tempo fa appariva abbastanza chiaro e condiviso il sottofondo generativo del processo di consegna intergenerazionale, raccolto intorno al senso dell’educare. Ma la situazione odierna risulta complicata già sul punto di partenza.
Il bisogno di senso
In linea generale, il bisogno di senso esprime l’esigenza insopprimibile di trovare risposta plausibile all’incontro personale con la realtà, nella speranza di avvertirla come “buona” e “promettente”. Simile risposta decide del nostro orientamento di fronte alla vita nel suo insieme. Dunque, il senso funziona come bussola per l’orientamento esistenziale. È un “sentire” che si costruisce a partire da un’esperienza affettivo-relazionale. In condizioni di vita “normali” sono i genitori a introdurre il figlio in questa dinamica, facendogli percepire che la sua venuta al mondo è compimento di un’attesa e di una speranza, è inserimento in una vita degna di essere vissuta.
Orbene, l’educazione, esperienza umana ricca di analogie con quella del generare, ha bisogno di costante alimentazione di senso. Questo s’interseca con il fine stesso dell’agire educativo, che possiamo raccogliere dalle parole di qualche autorevole pensatore. Educare significa: «condurre l’uomo verso la sua manifestazione» (M. Léna); «suscitare» la persona «per appello» (E. Mounier); favorire la «maieutica della persona» medesima (L. Stefanini). Sono “formule” meritevoli di specifici chiarimenti entro l’antropologia di ciascun autore. Qui ci limitiamo a riassumerli in una convergente idea: l’umanizzazione della persona come sistema aperto, in orizzontale (socialità) e verticale (trascendenza), che ha nella libertà la cifra qualificante e distintiva dell’umano. Ma, entro il divenire evolutivo di ciascun soggetto, si tratta di libertà da liberare dai mille lacci e condizionamenti che ne intralciano, oggi forse ancora più di ieri, la possibilità di un suo convincente esercizio. Quest’ultimo trova nell’agire autonomo e nella capacità di scelta responsabile il punto d’arrivo (ancorché mai definitivamente acquisito). L’educazione ha il compito di accompagnare/illuminare il minore nel non facile cammino di apprendimento esperienziale, dove il graduale definirsi della propria identità deve esibire stili e comportamenti da persona responsabilmente libera, come riscontri probanti di progressiva crescita in maturità.
Linee-forza di una progettualità educativa
Quali possono essere le linee-forza di una progettualità educativa attenta al quadro problematico dell’attuale, “fluida” condizione giovanile, ma nel medesimo tempo consapevole di non potersi sottrarre all’urgenza di una proposta tanto realistica quanto chiara, in ogni caso non accondiscendente a minimalismi rinunciatari? Le ravvisiamo in quattro tratti distintivi (suscettibili, ovviamente, di integrazioni):
– il recupero del centro di sé, che richiede graduale sviluppo dell’attitudine al discernimento e della capacità introspettiva, contro il rischio della dispersione/banalizzazione dell’esistenza secondo logiche consumistiche di beni, tempo, persone e nei riti omologanti delle appartenenze di gruppi autoreferenziali;
– il potenziamento dei dinamismi coscienziali, considerando che il cammino della e nella libertà esige congiunta assimilazione di una grammatica delle scelte da compiere, sempre bisognose del sostegno confermativo di una volontà da accendere ed esercitare;
– l’ermeneutica della corporeità, sollecitata dall’urgenza di favorire, già nei preadolescenti, un percorso di conoscenza e decifrazione del “mistero” del proprio corpo, con il dinamismo pulsante dell’affettività-sessualità, orientandolo alla progressiva consapevolezza di un dono da custodire con cura, fuori, quindi, da scomposti esibizionismi e improvvidi “sperimentalismi” proclivi alla soddisfazione immediata di ogni forma di desiderio;
– l’apertura al “tu”, al “noi”, alla società-mondo, oltre, quindi, ripiegamenti intimistici e narcisismi estetizzanti, per apprendere a relazionarsi con l’altro, gli altri, in un’ottica a cerchi concentrici sempre più allargati della propria esperienza di vita, coltivando la coscienza di una cittadinanza attiva e responsabile.
Ovviamente, in un contesto ecclesiale, a questi tratti di progettualità educativa va affiancato quello riguardante la dimensione religioso-spirituale. Dimensione pressoché disattesa nei vari ambiti di vita della «città secolare», salvo quello scolastico, a motivo dell’ora di Religione (un insegnamento che meriterebbe specifici approfondimenti, qui non contemplati).
Se anche dalle pur rapide considerazioni sopra svolte le difficoltà odierne dell’educare risultano di tutta evidenza, ci domandiamo ora se proprio in una società come la nostra, di tumultuosi cambiamenti, di poche certezze e di molti disagi esistenziali, incominciando dalle fasce giovanili, non vi sia, al riguardo, qualche inedita opportunità.
Il desiderio di un “soccorso” esterno
La risposta, forse di non immediata evidenza, potrebbe essere cercata a partire dalla constatazione dei limiti intrinseci alla sensibilità diffusa, pur con diversa gradazione, in ragazzi, adolescenti, giovani. Al di là di spavalderie, intemperanze e chiassosità, perlopiù di gruppo, in molti di loro prevalgono fragilità, confusioni, disorientamenti vari, i cui effetti disturbanti sul senso complessivo del vivere presente e del futuro non possono essere tacitati dal rumore assordante delle discoteche o, al contrario, dall’isolamento dal resto del mondo con le cuffie dell’iPhone. Talvolta dietro paraventi e maschere, le nuove generazioni ‒ come le precedenti, del resto, perché siamo nell’ambito di dinamiche tipiche dell’età evolutiva ‒, custodiscono gelosamente in sé attese, speranze, sogni. Non di rado, pur fuori dai circuiti espressamente ecclesiali, s’interrogano sullo stesso problema di Dio. L’impressione è che, di frequente, il turbinio di domande e progetti, di più o meno largo respiro, rimanga come sospeso, avvolto in un intreccio inconcludente d’ipotesi e velleitarismi. Il confronto confidenziale con l’amico e l’amica del cuore può funzionare sul piano dell’immediatezza consolatoria, ma non va molto in là. Magari non osano dirlo, però in parecchi adolescenti e giovani ‒ “disarmati” e di sicuro non irretiti negli ideologismi di tempi passati ‒ il desiderio di un “soccorso” esterno è presente e in alcuni casi deliberatamente cercato. Sta qui un’opportunità educativa di grande rilievo, da avvalorarsi al massimo. Ma, dove potrebbero trovare simile “soccorso”, se non in figure di adulti meritevoli della loro fiducia?
Così il problema torna al punto di partenza della nostra riflessione. La questione educativa oggi investe e interpella in modo particolare la generalità degli adulti. Ne sono realmente consapevoli? Si mostrano all’altezza del compito? In ogni caso, essi non possono rapportarsi all’educazione come a semplice trasmissione di conoscenze e valori nei quali sono cresciuti e che, magari, continuano a onorare. Oltre all’aspetto contenutistico ‒ tutt’altro che secondario! ‒, vi è però un nuovo convincimento da assumersi: nell’agire educativo odierno, prima ancora dell’aspetto meramente trasmissivo ‒ o, comunque, insieme ad esso ‒, è in gioco la relazione interpersonale. A tale proposito, l’attenzione va posta sull’idea di educazione come arte dell’incontro. Capitolo denso di evocazioni, risonanze, rilanci, che, avviandoci a concludere, sintetizziamo in brevi battute.
Intanto, il carattere connotativo dell’incontro. Si colloca su un piano asimmetrico, quanto a ruoli. L’adulto/educatore non va scambiato con il semplice compagno/amico del minore, anche se le migliori qualità dello stile amicale lo devono contraddistinguere. Rientrano qui alcune disposizioni umanamente “fini”, come la capacità di porsi accanto, senza invadenza, con l’intento di stabilire una relazione intensa e “complice”, attenta a bisogni, disagi e/o ferite dell’animo. Deve essere un incontro all’insegna della compassione, cioè, letteralmente, un patire/soffrire insieme con il giovane interlocutore, facendosi carico delle sue difficoltà.
L’ascolto profondo costituisce, poi, tratto distintivo di un incontro autentico. Un religioso, grande direttore spirituale, a colloquio con un fratello, si premurava sempre di chiudere ogni strumento di collegamento esterno. Chi gli stava dinanzi doveva “sentire” che il padre era lì tutto e solo per lui. Dovrebbe essere così anche nel colloquio educativo con l’adolescente o il giovane. Perché possano aprirsi, occorre siano posti al centro del rapporto, sentendosi, di fatto, a proprio agio. In ogni caso, l’ascolto deve seguire con rispetto il ritmo narrativo del proprio interlocutore, senza interferenze d’inopportune curiosità, stimolandolo piuttosto con domande di maieutica saggezza.
L’incontro può dirsi riuscito, quando apre alla possibilità di un accompagnamento educativo disteso nel tempo, lungo il quale l’attitudine empatica, di condivisione e “compromissione” con il minore ha modo di definirsi e consolidarsi. In quest’ottica, tale accompagnamento si fa orientativo. Aiuta a dipanare grovigli interiori, apre spiragli di luce, fa intravvedere strade praticabili, accende motivi di speranza. Il tutto con un obiettivo di fondo: rafforzare nell’adolescente e nel giovane il coraggio di prendere il largo, ossia di avventurarsi con rinnovata serenità e fiducia nel cammino della vita.
La relazione di accompagnamento! Forse sta qui, più che mai in questo tempo d’incerta fluidità e di forti cambiamenti, la chiave per lo sblocco dei troppi «sentieri interrotti» nei rapporti intergenerazionali.
LUCIANO CAIMI
già professore ordinario di Storia della pedagogia e dell’educazione presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, è Presidente dell’associazione “Città dell’uomo” e Direttore della rivista «Appunti di cultura e politica». È stato Presidente dell’Ac ambrosiana nel triennio 1998-2002.