Cosa significa dire che ci sarebbe bisogno di un nuovo mattino per la Chiesa e per l’Azione cattolica? Guido Meregalli ci guida in una riflessione che mette al centro la sinodalità, il futuro della Chiesa e quello dell’associazione.
La sinodalità fa paura?
A due anni dall’avvio del Sinodo dei Vescovi sulla sinodalità, circolano vari modi di intendere la Chiesa sinodale. Per qualcuno la Chiesa è già sinodale e quindi ci si chiede perché dedicare tutto questo tempo a una cosa che è già acquisita. Per altri la Chiesa è già sinodale, ma non lo è abbastanza: è quello che pensa la maggior parte dei parroci, i quali traducono questo giudizio in uno sforzo di maggiore ascolto della propria controparte, il laicato.
Per altri ancora – e tra questi metterei il nostro Arcivescovo – la sinodalità è uno stile ecclesiale di ascolto dello Spirito che genera buone prassi e porta gradualmente al rinnovamento della Chiesa; le Assemblee Sinodali Decanali (ASD) aprono a un cambiamento secondo lo Spirito a partire da un livello – il decanato – dove il diritto canonico non pone vincoli particolari e dove la tradizionale “Chiesa a due sponde” (clero vs laicato) è poco o per niente strutturata.
Per altri infine – e tra questi metterei papa Francesco – la sinodalità è la nuova frontiera della Chiesa dove si dà il superamento della Chiesa “a due sponde”, la ricomposizione della frattura tra clero e laici (Il clericalismo, ripete Francesco, è la peggiore piaga della Chiesa), e questo in virtù della dignità battesimale che accomuna laici e presbiteri, pur nella diversità di carismi e ministeri, e abilita tutti i battezzati all’ascolto dello Spirito, al camminare insieme e al riconoscere insieme le strade che lo Spirito suggerisce.
Così intesa, la sinodalità fa paura a molti. Agguerrita è la pattuglia di coloro che operano sottotraccia perché questa parola esca rapidamente dal nostro vocabolario. Fa paura, la sinodalità, perché non è solo il tema dell’anno, destinato dopo un anno al dimenticatoio, ma è il terreno su cui si gioca il presente e il futuro della Chiesa.
Una corresponsabilità senza aggettivi
ll passaggio fondamentale è quello della “corresponsabilità laicale”. In questo binomio c’è una parola di troppo: “laicale”. Appena la pronunci, ti ritrovi immerso nella Chiesa “a due sponde” in cui c’è qualcuno che è responsabile (il prete) e qualcun altro (il laico) a cui si concede di essere responsabile insieme al prete. La sinodalità richiede invece una “corresponsabilità” senza aggettivi (o, se proprio ne serve uno, mettiamoci “ecclesiale”); postula che tutti i battezzati siano corresponsabili della vita della Chiesa e della custodia della fede dei fratelli.
È quello che già accade nelle ASD, sia pure embrionalmente, dove laici, laiche, presbiteri, religiosi e religiose, si mettono in ascolto dello Spirito (con il metodo della “conversazione spirituale”) e insieme decidono che strada prendere. Funziona. Non a caso ad aprile, il Consiglio Pastorale Diocesano ha approvato una mozione (l’unica votata all’unanimità) con cui il CPD chiede all’Arcivescovo di fare in modo che, in occasione della revisione del Direttorio dei Consigli Pastorali parrocchiali e di comunità pastorale, la stessa idea di corresponsabilità e di sinodalità che si realizza nelle ASD, venga estesa anche ai Consigli Pastorali delle Comunità parrocchiali o pastorali, che sono, o dovrebbero essere, i luoghi veri della sinodalità. Con buona pace del diritto canonico.
L’Azione cattolica ha ancora un compito nella Chiesa?
In tutto questo, l’AC cosa c’entra? L’AC ha un problema e tre compiti.
Il problema è che sulla sua carta di identità sta scritto “Figlia primogenita (e un tempo prediletta) della Chiesa a due sponde, forma esemplare di organizzazione del laicato che collabora stabilmente con la gerarchia ecclesiastica”. Mai come oggi questa definizione suona astratta, in frizione con la realtà, non applicabile a un tempo, il nostro, in cui devi visitare centocinquanta parrocchie prima di trovare un giovane che entri in seminario, e dove, da qui a dieci anni, non avremo che pochi preti anzianissimi, peraltro già oggi stanchi e disillusi, taluni in burnout, come sa chi – e parlo dei Gruppi Barnaba – li ha incontrati in questi due anni, trovandoli insofferenti, loro stessi, al ruolo che la Chiesa “a due sponde” gli attribuisce.
La Chiesa sinodale, peraltro, non nasce dalla carenza dei sacerdoti, ma da una diversa comprensione che la Chiesa ha di sé stessa, nasce da una più consapevole lettura del paradigma da cui la Chiesa “a due sponde” è nata, il paradigma “pastore-gregge”. Dal “Pasci le mie pecore” di Gesù a Pietro (Gv 21, 16), la storia della Chiesa ha visto la comunità dei pastori sempre più impegnata a distinguersi dal resto del popolo di Dio, sicché ancora oggi ogni sacerdote è “pastore” e chi non è sacerdote è “gregge”. Anche la Chiesa sinodale nasce dal paradigma “pastore-gregge”, ma con un significato diverso: il “pastore” è uno ed è lo Spirito di Gesù che guida la Chiesa, “gregge” sono tutti i battezzati che seguono il Maestro, pur nella diversità dei carismi e dei ministeri loro affidati.
Se nella Chiesa “a due sponde” i pastori si occupano della Chiesa e i laici del mondo (LG 31), nella Chiesa sinodale tutti i battezzati, riconosciuto il proprio carisma, sono a servizio dei fratelli nella forma ministeriale che riterranno più rispondente a ciò che lo Spirito avrà suggerito e che la comunità avrà confermato.
Un nuovo mattino per la Chiesa e l’Azione cattolica. I 3 compiti dell’Ac
Questa diversa comprensione che la Chiesa ha di sé stessa, nonché l’evidente franare della prima sponda, spingono anche l’AC a ripensare sé stessa – lei figlia prediletta della Chiesa “a due sponde” – e a chiedersi quale sarà il suo compito – se ne avrà uno – nella Chiesa sinodale. Riscrivere la carta d’identità dell’AC, a giudizio di chi scrive, è un problema risolvibile, ma a condizione che l’AC sappia farsi carico di almeno tre compiti.
1. Una riflessione sulla Chiesa sinodale
Il primo compito è quello di contribuire alla riflessione sulla Chiesa sinodale e sulla transizione dalla Chiesa “a due sponde” alla Chiesa sinodale. L’AC è da sempre palestra di sinodalità: al suo interno il carisma di ogni battezzato diventa regolarmente forma di servizio alla comunità ecclesiale o civile. Ha dunque le carte in regola per contribuire a questa riflessione, fermo restando che toccherà al Sinodo fornire l’interpretazione autentica di cosa significhi Chiesa sinodale. Nondimeno, quello di ragionare sulla Chiesa sinodale è un primo compito a cui anche l’AC può e deve dedicarsi. Anzi, “continuare a dedicarsi” visto che sono già numerosi i testi e i momenti formativi promossi dall’associazione.
2, Prove tecniche di sinodalità
Il secondo compito è più concreto. Bisogna che l’AC si decida effettivamente a lasciarsi alle spalle la Chiesa a “due sponde” e prenda a veleggiare con determinazione verso la Chiesa sinodale. La sinodalità la si capisce vivendola. E se la Chiesa sinodale è la Chiesa che vive lasciandosi guidare dallo Spirito, il secondo compito per i laici dell’AC è quello di partecipare con convinzione a quelle prove tecniche di sinodalità che sono le ASD, cosa che in fondo sta già accadendo. Ma non basta.
Bisogna fare il possibile già oggi perché lo stile sinodale plasmi ogni articolazione della compagine ecclesiale; e che spazi di ascolto dello Spirito, secondo il metodo della conversazione spirituale, si aprano a tutti i livelli; e che assemblee sinodali nascano nelle diocesi, nelle parrocchie e nelle comunità pastorali, nelle aggregazioni ecclesiali, a orientare le comunità nelle decisioni che le riguardano. Vivendo sul campo la sinodalità, l’AC può e deve agire come forza spirituale capace di trasformare gli incontri spesso inconcludenti delle nostre comunità in momenti di ascolto dello Spirito.
3. Riconoscere i carismi che lo Spirito dona
Ma c’è un terzo compito, ancora più sfidante e decisivo, capace di indicare all’AC un nuovo modo di essere al servizio della Chiesa nei prossimi centocinquant’anni di vita associativa.
La Chiesa sinodale nasce e rinasce continuamente dall’ascolto di ciò che lo Spirito le suggerisce. Più di tutto, lo Spirito effonde doni – i carismi – di cui tutti i battezzati e le battezzate sono portatori sani, e si aspetta che i carismi effusi innanzitutto consentano ai figli di Dio di vivere bene, poi che assumano la forma di ministeri, diventino cioè forme di servizio – le più varie – ai fratelli e alla comunità, ecclesiale e civile.
Se nella Chiesa a “due sponde” è il sacramento dell’ordine che abilita ai ministeri ecclesiali, nella Chiesa sinodale è il sacramento del battesimo. Se la Chiesa “a due sponde” si ferma a un paio di ministeri o tre, e li àncora a una sola sponda, la Chiesa sinodale pullula di carismi e di ministeri. E non conosce sponde. Vive solo se è capace di riconoscere i doni che lo Spirito elargisce e se è capace di dare forma ai servizi più opportuni, in ragione dei doni che lo Spirito ha effuso.
Qui si apre uno spazio enorme, non presidiato, completamente destrutturato, eppure generativo della Chiesa del futuro. È lo spazio in cui è necessario che qualcuno si occupi stabilmente – forma ministeriale essa stessa – di riconoscere i carismi che lo Spirito dona e di capire a quali forme di servizio possano essere avviati, fermo restando il ministero petrino che, ai vari livelli, confermerà o meno la fedeltà al Vangelo di ciascun carisma o ministero.
Questo spazio, enorme, è lì spalancato anche davanti all’AC, che ora potrebbe pensare sé stessa, non come la figlia prediletta della Chiesa “a due sponde”, ma come un’associazione di battezzati e di battezzate (non ho detto laici e laiche), che scelgono di dedicarsi stabilmente al discernimento dei doni dello Spirito e all’orientamento dei battezzati e delle battezzate verso le forme più appropriate di servizio alla Chiesa e ai fratelli.
Facile pronosticare che se a questo discernimento non si dedicherà l’AC, il ruolo dell’AC sarà soppiantato da chi si occuperà di questo discernimento. Soprattutto, se nessuno si dedicherà stabilmente a questo discernimento, la Chiesa sinodale non avrà fiato per camminare e si fermerà.
È un compito straordinario quello che abbiamo davanti. Che inizia e non ha mai fine, perché in gioco c’è la fantasia dello Spirito. CEM, Carismi E Ministeri: questo il nome che darei all’AC di domani (rubando la sigla alla prima sponda che la usa per indicare la Conferenza Episcopale Milanese). Andrebbe bene anche CM, ma rischierebbe di essere letta come la pretesa di succedere, quantomeno in ordine alfabetico, ad altra cospicua realtà ecclesiale…
Quale che sia il nome, c’è una prateria di iniziative da mettere in campo, c’è una moltitudine di battezzati e di battezzate che attende riconoscimento e avviamento a un ruolo di servizio nella comunità, sia esso il catechista, l’allenatore dei pulcini, il sacerdote, l’impegnato nel sociopolitico, la suora, il professionista, l’animatore dell’oratorio estivo, il vescovo, l’insegnante, il metalmeccanico, il volontario Caritas, l’imprenditore, il fidei donum, il sindacalista, il papa, l’organista. C’è un carisma per ciascun battezzato e c’è un ministero a cui è senz’altro chiamato. Chi se ne occupa?
Chiesa sinodale o nessuna Chiesa
Non si tratta di formare operatori pastorali, anch’essi figli della Chiesa a due sponde, ma “testimoni missionari” della fede, come chiede il Papa. La Chiesa del terzo millennio o sarà sinodale o non sarà. O sarà ministeriale o non sarà. Al disegno e alla costruzione della Chiesa sinodale-ministeriale, l’AC può e deve dare un contributo fondamentale, mettendo a disposizione tutta la sua storia di sinodalità, fedeltà, amore e servizio alla Chiesa di Gesù.
Proprio la sua storia fa dell’AC la più autorevole candidata a trasformarsi in CEM – o come volete che si chiami – per porsi stabilmente al servizio del discernimento dei carismi e all’orientamento verso i ministeri più appropriati. Se non lo fa e se continua a pensare solo a come sopravvivere dentro la Chiesa “a due sponde” e a come farla sopravvivere, è destinata a morire con essa. Che è quello che sta capitando. Ma è questo quello che vogliamo?
Contro i profeti di sventura che annunciano una Chiesa al tramonto, il teologo ceco Thomas Halik ha descritto il tempo presente della Chiesa come un pomeriggio di maturità (T. Halik, Pomeriggio della Chiesa. Il coraggio di cambiare, Vita e Pensiero, Milano 2022). Io vorrei essere ancora più ottimista e parlare di un mattino della Chiesa e dell’AC, un’alba nuova. Naturalmente, a una condizione: che Chiesa e AC prendano a veleggiare, insieme e con decisione, verso una Chiesa autenticamente sinodale.
Guido Meregalli
Grazie degli spunti interessanti!
E’ vero che il dualismo clero-laici sarebbe da superare, in favore di uno schema carismiministericomunità e che l’AC nasce dentro il primo.
Però oltre alle necessarie riforme strutturali e organizzative (degli organismi parrocchiali e forse anche dell’AC), ci sono anche leve culturali profonde da azionare. Altrimenti le riforme rimarranno formali ma non toccheranno le dinamiche reali (ci sono battezzate si comportano in modo clericale anche se soci di AC e moderatori di ASD!). Una di queste leve penso sia lo smantellamento della corrispondenza tra il sacro e il ministero ordinato. Per esempio, se continuiamo a chiamare “sacerdoti” i ministri ordinati, dimenticando che sacerdoti lo sono tutti i battezzati, non riusciamo ad uscire dalla mentalità per cui i preti siano in qualche modo “speciali”. E quindi ci accusano di rivendicare spazi di potere, anziché capire che vogliamo solo rendere la Chiesa più coerente con se stessa.
Speriamo che le riflessioni dell’autore, insieme a tante altre, trovino spazio nel prossimo percorso assembleare!