Prendiamo un gruppo di una decina di ragazzi tra i venti e i trent’anni. Mettiamoli a vivere insieme per circa nove mesi per un’esperienza di vita comune: condividere il quotidiano, il servizio, le proprie riflessioni, la preghiera… Poniamo il caso che ognuno di loro scelga di vivere una ricerca vocazionale.
Ecco, questa è la Rosa dei 20, una proposta dedicata ai giovani curata dalla Diocesi di Milano, mentre la formazione e il coordinamento dell’equipe che guiderà il gruppo è sotto la responsabilità dell’Azione cattolica ambrosiana. L’equipe è composta sia da laici sia da consacrati, dunque, che supportano i partecipanti nella gestione, nelle relazioni, nel discernimento.
L’anno scorso l’iniziativa non ha avuto luogo a causa del Covid, ma quest’anno pastorale 2021/22 si ricomincia, con due nuove sedi disponibili: Legnano (parrocchia di San Domenico) e la parrocchia di Santa Maria del Rosario a Milano, in zona Solari.
Ma ora veniamo al cuore dell’iniziativa. Cosa significa realmente prendere parte alla Rosa dei 20? Cosa lascia dentro di sé quest’esperienza? Ne abbiamo parlato con Dario Romano e Luca Zorzenon, che avevano erano stati membri della comunità e che ringraziamo per aver offerto la propria testimonianza.
Era l’anno pastorale 2019/20, la sede scelta la parrocchia dei Santi Martiri, nel quartiere Gallaratese di Milano, nei pressi della fermata Bonola. Nel condominio solidale – parte integrante della parrocchia – era inserita una comunità di adulti disabili e una di minori. Don Gianbattista Biffi era punto di riferimento dei ragazzi, mentre don Cristiano Passoni (assistente dell’Ac) aveva curato i colloqui iniziali, mentre la giovane Angela Moscovio (Ac) ha aiutato il gruppo come guida laica. Per completare l’equipe, due famiglie hanno svolto un ruolo di accompagnamento e sostegno durante la permanenza dei ragazzi. La prima, una famiglia missionaria a km zero, che abitava e lavorava all’interno del condominio solidale; la seconda era invece più ordinaria, impegnata in una parrocchia delle vicinanze.
Partiti a ottobre 2019, i ragazzi erano cinque: oltre a Luca Zorzenon e Dario Romano, anche Arianna, Giulia e Massimo (che però abbandona dopo qualche tempo). Vite diverse, studi e lavori diversi: uno studia ingegneria, un altro lavora in una casa di produzione, una insegna, l’altra ancora è educatrice… Di loro, solo Luca e Dario si conoscevano già perché avevano frequentato in passato lo stesso studentato, gli altri no. I momenti effettivamente dedicati alla vita comune erano la sera e durante i weekend. Poi il tutto, causa pandemia, si è intensificato anche nel resto della settimana. La compieta, la condivisione e le lectio vissute insieme sono diventate un momento ordinario e quotidiano, vissuto con semplicità e cura.
Dario esordisce così: «In un anno siamo riusciti a trasformare un’esperienza di vita comune tra ragazzi che non si conoscevano in un’occasione per creare un gruppo coeso, pur nella diversità di cammini personali. Ciò è stato possibile grazie all’impegno di ciascuno, cercando anche di andare oltre le proprie vedute, e grazie alla situazione stessa della pandemia, che ha segnato un netto spartiacque del periodo vissuto in condivisione. Per usare le parole dell’arcivescovo, è stata davvero un’opportunità di amicizia, fraternità e grazia». Anche Luca si mostra d’accordo: «A distanza di due anni, c’è ancora tanto su cui riflettere partendo da quest’esperienza che mi ha cambiato, che mi ha permesso di fare passi in avanti, ma su strade che non avrei probabilmente mai immaginato. L’anno di vita comune mi ha fatto conoscere me stesso sotto una vesta nuova: senza grandi incontri, bastava la quotidianità del confronto, la condivisione e il servizio. Abbiamo cercato di fare spazio agli altri nel nostro cuore, e senz’altro è stato un bellissimo viaggio, essenziale anche per far emergere proprie doti e propri limiti, che spesso rimangono nascosti dietro la frenesia degli impegni durante le giornate». Continua poi Dario, «Il mio cammino personale si è concentrato sul passaggio dall’io al noi, sulla facoltà di arricchire la vita di occasioni concrete di fraternità. Come abbiamo visto, pur rispettando le restrizioni dovute all’emergenza, all’interno del gruppo dei compagni d’avventura e all’interno del condominio solidale e della parrocchia di accoglienza in cui abbiamo abitato (pur rispettando le restrizioni dovute all’emergenza)».
Esporre apertamente le proprie insicurezze e il proprio carattere per un tempo prolungato non è affatto semplice, tuttavia è un percorso che può portare frutti. Infatti, ribadisce Luca, «l’esperienza della Rosa ti costringe un po’ a metterti a nudo: sei costretto a mostrare quella piccola parte di fragilità che vorresti tenere nascosta. Ed è bello quando la vergogna cede il posto alla fraternità e si apre alla gioia. Inoltre, aver vissuto la vita comune durante il lockdown non è stato indifferente: ha significato davvero tanto stare in e con questa famiglia, sia durante i momenti spensierati e felici sia durante quelli più difficili. Ricordo ancora la primavera dell’anno scorso, ad esempio, con i fiori che sbocciavano fuori dalla finestra, le serate semplicemente seduti sul davanzale a guardare fuori, le risate sulle scale e le chiacchierate scambiate davanti all’orto…». E prosegue Dario: «Nonostante lo stress emerso a causa dell’inizio della pandemia, non è mai venuta meno la voglia di stare insieme in quel periodo, di costruire un percorso comune. Riuscire a porre un limite al proprio io e venire incontro alle necessità altrui è una scommessa continua, quando alla sera si torna a casa stanchi e a volte mancano le parole per esprimere gli umori avvicendatisi nel corso della giornata».
Dunque, l’esperienza della Rosa dei 20 è da suggerire? «Sì, – ci dicono Dario e Luca – perché non ci si può mai conoscere da soli, e la propria vocazione è sempre anche a vantaggio degli altri. Camminare insieme è un passo indispensabile per capire chi siamo e a chi vogliamo dedicare la nostra vita, vivendo quindi un percorso di fede con l’obiettivo di interrogarsi alla luce della Verità. Ognuno di noi ha il proprio modo di relazionarsi con gli altri e di affrontare la preghiera, ma non per questo modalità diverse risultano incompatibili. Anzi, tenere insieme le differenze si è dimostrata una grande lezione di vita». In conclusione, «per avviare positivamente la vita comune non serve una formula perfetta o una proposta eccessivamente strutturata, quanto la semplice volontà di accompagnarsi reciprocamente, fidandosi e affidandosi a Qualcuno che ama la nostra vita più di quanto noi saremmo mai in grado».
Francesca Bertuglia