Note a margine della lettera “Desiderio desideravi” di Papa Francesco
“La Liturgia è il sacerdozio di Cristo a noi rivelato e donato nella sua Pasqua (…) perché lo Spirito, immergendoci nel mistero pasquale, trasformi tutta la nostra vita conformandoci sempre più a Cristo”.
Con queste parole, tratte dal paragrafo 21 della lettera “Desiderio desideravi”, di recentissima pubblicazione, Papa Francesco ci indica il senso ultimo della liturgia eucaristica.
“Di domenica in domenica, la comunione al Corpo e al Sangue di Cristo vuole fare anche della nostra vita un sacrificio gradito al Padre, nella comunione fraterna che si fa condivisione, accoglienza, servizio. Di domenica in domenica, la forza del Pane spezzato ci sostiene nell’annuncio del Vangelo nel quale si manifesta l’autenticità della nostra celebrazione” (DD 65).
La lettera del Papa è un grande dono per la Chiesa. È un’ampia cornice all’interno della quale traggono senso e significato i gesti e le parole, i segni e i simboli di cui la liturgia si compone. Come ogni cornice non serve tanto a definire i confini non oltrepassabili di ciò che è lecito dire o fare, quanto a ospitare al proprio interno ogni possibile riformulazione di parole e gesti, segni e simboli, che possano sempre meglio esprimere il senso della liturgia.
Vero è che:
“Una celebrazione che non evangelizza non è autentica, come non lo è un annuncio che non porta all’incontro con il Risorto nella celebrazione” (DD 37).
Questo dunque il criterio: la liturgia è autentica se evangelizza. E se non evangelizza, c’è un problema. Se non evangelizza, occorre chiedersi se i tempi e i modi delle nostre celebrazioni rispondano all’obiettivo di far incontrare il Risorto.
Giustamente il Papa non entra nel merito. Difficile dire se la liturgia evangelizzi o meno. Un fatto però è evidente: ragazzi, adolescenti e giovani sono pressoché scomparsi dalle nostre messe. Sarà colpa della pandemia o della secolarizzazione, è un fatto che messa e adolescenti, messa e giovani, sono realtà che non vanno d’accordo. Le normali contromisure (maggiore cura nella celebrazione: DD 50; specifica formazione di tutti i fedeli: DD 34-35), per quanto necessarie, possono poco o nulla nei confronti di un fenomeno che pare talmente ampio e diffuso da sembrare quasi irreversibile.
Eppure, pensando a come adolescenti e giovani si ritrovino comunque attorno al don, partecipino ad altre iniziative dell’oratorio, facciano le vacanze insieme, condividano molti altri momenti, anche di preghiera e di riflessione, viene da pensare che, va bene la pandemia, va bene la secolarizzazione, ma forse un problema è la liturgia stessa, che invece che favorire l’incontro col Risorto, lo ostacola e talvolta lo impedisce. È un dubbio che abbiamo tutti.
A questo dubbio c’è chi reagisce scandalizzandosi e pretendendo che i giovani abbiano subito a ravvedersi: la liturgia è sacra, e questo basti. C’è invece chi si chiede – e io sono tra questi – se per caso i giovani non abbiano qualche ragione e che un cambiamento sia davvero urgente, a pena di perdere, una dopo l’altra, liturgicamente parlando, altre generazioni di giovani.
Ma cosa significa cambiare la liturgia? Da dove si comincia? E cosa cambiare? Certo non può venir meno l’incontro col Risorto che si fa Parola e Pane. Mancando uno di questi elementi, viene meno il senso stesso della liturgia. Ma come realizzare questo incontro in modo che un giovane lo viva come qualcosa di appassionante al punto da cambiargli la vita?
Chiaro che non esistono ricette, ma solo piste da esplorare. Ne vedo almeno cinque, comunque interne alla cornice fissata dal papa, piste da battere per rinvenirvi soluzioni utili a fare dell’azione liturgica qualcosa di significativo per tutti, soprattutto se giovani.
La pista linguistica: la liturgia utilizza sistematicamente vocaboli che non appartengono al linguaggio di un giovane: pietà, gloria, colpa, peccato, sacrificio, salvezza, spirito, grazia, potenza, santo. Per tacerne altri… Un millennial – che stupido non è, ma semplicemente parla un’altra lingua – non capisce nemmeno di cosa si sta parlando. Possiamo fargliene una colpa? Ovvio che, dopo cinque minuti, prenda a sbirciare lo smartphone.
La pista antropologica. Cioè: non è solo un problema linguistico. La liturgia evoca di continuo un’idea di uomo fragile, peccatore, bisognoso di salvezza, indegno di stare davanti al Signore, in preda a paure e turbamenti. “Abbi pietà di noi” è la frase che, in forme sempre diverse, si ripete di più. Ma perché? È proprio necessaria questa continua insistenza? Perché solo rare tracce (di solito nella predica o nei canti) di un’idea di uomo sereno, generoso, aperto, che pur consapevole della sua fragilità si sa chiamato a collaborare al disegno di amore e di salvezza che Dio ha per il mondo e per ogni creatura?
La pista teologica: che idea di Dio trasmette la liturgia? Quello che a noi della vecchia guardia non fa né caldo né freddo, un giovane lo avverte subito: la liturgia trasmette un’idea strana di Dio, molto variabile, spesso contraddittoria, in alcuni casi irricevibile. Il Dio creatore, il Dio degli eserciti, il Dio legislatore, il Dio dominus che governa il popolo con legge ed eserciti, il Dio giudice che non dimentica, il Dio misericordioso che dimentica ma solo se hai implorato pietà. Hai voglia a parlargli di generi letterari… In realtà, solo in Gesù si rivela il volto del Dio vero: che ancora prima che peccassimo e molto prima che ci ravvedessimo ci cerca e ci accoglie come suoi figli. Diciamocelo: solo questo Dio può suscitare ancora qualche interesse tra gli uomini e le donne del terzo millennio. E per fortuna è il Dio vero. Il problema è che nella liturgia il Dio vero stenta a farsi largo. Se poi irrompe il Dio degli eserciti, ad esempio durante la seconda e terza lettura della Veglia pasquale (!), io da genitore prego che i miei figli si distraggano e non sentano quello che il lettore sta leggendo.
La pista pastorale: qual è la buona notizia che arriva dalla liturgia? La buona notizia è che per tutti alla fine c’è un destino di salvezza. Non è poco. Anzi, è tantissimo. Ma per un adolescente o un giovane, la vera buona notizia non è sapere che alla fine c’è la vita eterna, ma scoprire che in Gesù già oggi la sua vita è eterna, che già oggi in Gesù ha modo di vivere in pienezza la sua esistenza, come nessun influencer e nessuno social sarà mai capace di fare. Peccato che non ci sia traccia di questa buona notizia nella liturgia. In compenso ci aspettiamo che un adolescente ripeta con noi “Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”. Ci stupiamo che torni a sbirciare lo smartphone?
La pista ecclesiologica: la liturgia ci forma fin da piccoli a una Chiesa a due sponde. Da una parte il clero, dall’altra chi clero non è. Da una parte i ministri ordinati, dall’altro il non meglio identificato popolo di Dio. La liturgia è la prima fonte del clerocentrismo (oggettivo) che si fa clericalismo (soggettivo) nelle coscienze di tutti. Una piaga per la Chiesa di oggi, secondo il papa. La liturgia dovrebbe educarci a una Chiesa in cui i carismi di tutti i battezzati, soprattutto se giovani, siano riconosciuti e valorizzati, senza nulla togliere al ministero di chi rende presente Gesù nel segno sacramentale. Ma che fine han fatto gli altri carismi? E gli altri ministeri? Non sto parlando di accolitato o lettorato, figli delle due sponde, ma di tutti gli altri….
Su queste piste, e certo su altre ancora, cercansi esploratori. Su queste piste, comunque interne alla cornice tracciata dal papa e comunque da battere al fine di rendere possibile l’incontro con il Risorto, dovrebbero aprirsi (da ieri) potenti sedute di riflessione e di preghiera, di ascolto e di discernimento, in un’ottica di autentica sinodalità. Dovrebbero aprirsi, ma non si aprono.
Noi laici per primi sembriamo rassegnati. Ci frena una grande paura di prendere il largo. Ci frena la paura di fare peggio di quanto stiamo facendo. Nel frattempo, ogni domenica che passa qualche altro giovane dice ai propri genitori: “Andateci voi a messa”. Anche i miei figli me l’hanno detto. Lì per lì, ci sono rimasto male. Ho pensato a un fallimento educativo. Poi ho capito che non era un fallimento, ma la cifra del loro coraggio. E, si sa, “a volte il coraggio salta una generazione” (da The Help, film di Tate Taylor, 2011). Non la loro però. La nostra.
Guido Meregalli